Cosenza, polizia violenta. Un colpo alla libertà di stampa (di Fabio Anselmo)

di Fabio Anselmo, avvocato

Gabriele Carchidi. Giornalista.
Quello che leggo oggi su Repubblica è allucinante.
Fermato dalla polizia mentre camminava, in tuta da ginnastica, lungo il marciapiede che percorre ogni giorno.
La richiesta di documenti. Nessuna spiegazione.
Lui chiede il motivo.
La risposta: toni minacciosi, strattoni, forza fisica.
Lo bloccano. Lo costringono a terra. Uno degli agenti ha un ginocchio vicino alla schiena.
Carchidi ha paura. Ricorda George Floyd. Ricorda altri fermi finiti male.
E ha ragione ad aver paura.
C’è un video. Parla da solo.
Un intervento sproporzionato. Insensato. Inaccettabile.
Lo portano in questura. Lo fotosegnalano. Gli prendono le impronte.
E alla fine lo denunciano per resistenza a pubblico ufficiale.
Ma non basta. Qualcuno gli dice: “Tu sei un diffamatore.”
Lo conoscevano. Sapevano chi fosse. Lo avevano già deciso.
E allora tutto cambia.

Perché questo non è solo un fermo. È un messaggio.
Un tentativo di intimidire.
Di zittire chi scrive. Chi denuncia. Chi non si allinea.
Carchidi è il direttore di un portale locale che spesso tocca nervi scoperti. Le sue inchieste più recenti?
Proprio sulla polizia di Cosenza: droga scomparsa dopo i sequestri, soldi mai arrivati nelle casse dello Stato, ricatti, talpe, minacce.
Denunce pubbliche, nero su bianco.
Un colpo alla libertà di stampa. Ai diritti fondamentali. Alla legalità.
Non si può identificare una persona con la forza.
Non si può ridurre al silenzio un giornalista con queste modalità.
Non si può confondere il dovere con l’abuso.
La legge non è — e non deve mai diventare — la legge del più forte.
Ora più che mai non spostiamo la luce su questo caso.