Cosenza, polizia violenta e divise sporche: l’ispettore minacciato dal collega voleva indagare sui boss della sanità privata

Ogni volta che emerge un abuso o una condotta scorretta da parte di un uomo o una donna in divisa, a loro difesa parte immediatamente la solita liturgia: politica e istituzioni si affrettano a lodare il “valore degli uomini in divisa”, dipingendoli come baluardi di legalità, sacrificio e dedizione. Un principio sacrosanto, certo, ma che perde ogni credibilità quando viene applicato anche a chi è coinvolto in vicende torbide, che disonorano la divisa e ne tradiscono il significato. Ed è proprio questa confusione, questa difesa automatica e indiscriminata, ad alimentare una narrazione che funziona. E che, proprio per questo, è diventata un riflesso condizionato. Ma dietro questa retorica che fa comodo a tutti – dal politico in cerca di consenso al dirigente in cerca di coperture – si nasconde una realtà che pochi vogliono affrontare: le mele marce ci sono eccome, anche nelle forze dell’ordine.

Quando a commettere un abuso, un reato o addirittura un delitto è un poliziotto, improvvisamente la trasparenza sparisce, la giustizia si fa cauta, le indagini si incartano. Entra in scena la corporazione, quella che protegge, insabbia e preferisce lavare i panni sporchi in caserma piuttosto che nelle aule dei tribunali. E la politica? Muta. O peggio: complice. Con le dovute eccezioni, certo, ma pronta a sventolare il tricolore della fedeltà istituzionale pur di non ammettere che la divisa, in certi casi, diventa copertura per la violenza. Questa retorica selettiva, che celebra i servitori dello stato solo quando fa comodo, finisce per danneggiare proprio chi la divisa la indossa onestamente. Perché protegge chi sbaglia, legittima l’omertà interna e impedisce quella pulizia necessaria per restituire credibilità alle istituzioni. La fiducia non si conquista con le frasi fatte nelle cerimonie ufficiali, ma con la verità, anche – e soprattutto – quando fa male. Ed è questa la nostra colpa: insistere su questo. E spesso lo paghiamo a caro prezzo, come nel caso dell’agguato che ci è stato testo a piazza Bergamini nel quartiere di via degli Stadi. 

L’aggressione di tale Amodio Umile, servo dei servi, non è un episodio frutto di un controllo di polizia finito male, come lo si vuol far passare. È, al contrario, l’ennesima prova di un sistema marcio che, messo alle strette, reagisce con la forza. E stavolta lo fa alla luce del sole, senza nemmeno tentare di mascherarsi. Solo pochi giorni prima, avevamo pubblicato una notizia gravissima che nessun altro giornalista locale ha riportato. Non perché non ne erano al corrente, ma perché gli è stato vietato di pubblicarla: un ispettore della digos di Cosenza ha ricevuto minacce gravi, due proiettili e un biglietto con scritto “farai una brutta fine”. Abbiamo scritto, con chiarezza, che quella minaccia non proviene da fuori, ma da dentro la questura. Per essere precisi: a minacciare l’ispettore con un metodo evidentemente mafioso è stato un altro poliziotto. Non è un’ipotesi buttata lì, è una certezza. Una verità che i vertici della questura conoscono perfettamente. Tutta la questura sa chi è. E anche noi lo sappiamo.

Non è certo un segreto che tra l’ispettore minacciato e il suo collega non correva buon sangue, per questioni tutte interne legate alla gestione dell’ufficio: c’è chi stava dalla parte dell’ex dirigente della digos De Marco, oggi in pensione, sempre pronto a difendere i colpevoli piuttosto che gli innocenti, e chi no. Alla procura basterebbe convocare l’ex dirigente De Marco e chiedergli conto della faida tutta interna alla digos, di cui lui è il regista, per risolvere il caso, che di fatto è già risolto. Ma non possono chiudere il caso, perché c’è di mezzo un altro poliziotto che, qualora incriminato, dovrebbe spiegare bene i motivi di un gesto così grave, e il rischio è che venga fuori un uso della divisa, che dire improprio diventa un eufemismo. Qualche motivo della faida: c’è chi era d’accordo a falsificare verbali su una presunta cellula anarcoinsurrezionalista a Cosenza, e chi no. C’è chi era disponibile a chiudere un occhio sulle malefatte di certi imprenditori della sanità, e chi no. C’è chi era disposto a firmare qualsiasi cosa palesemente falsa, e chi no. Il tutto sempre con lo scopo di favorire gli amici degli amici del dirigente. Compreso il favore di eliminare dalla scena pubblica e politica, con metodi illegali e abusando della divisa, i loro nemici, e per i sottoposti disposti ad eseguire qualsiasi ordine, la promessa di carriera e straordinari fittizi a go go.

La minaccia in stile mafioso subita dall’ispettore è un fatto gravissimo, tenuto nascosto dai vertici della questura. Nessuna conferenza stampa, nessuna indagine pubblica, nessun provvedimento. Solo silenzio. Continuare a distorcere questa verità spostando l’attenzione sulla legittimità o no della richiesta dei documenti, significa essere complici di tutto questo. Ancor di più la questura.

Non c’è nulla di casuale in quanto accaduto a piazza Bergamin. Persino il nome della piazza. Lo sanno tutti che il marito dell’omicida di Denis Bergamini è un poliziotto. Anche il luogo è un avvertimento. Un “ora basta” rivolto a chi osa raccontare quello che succede nei palazzi. Il mandante è lo stesso: un sistema di potere malato, che teme la verità e risponde con la violenza.