dalla pagina FB di Enzo Ciconte
Scrittore e uomo politico italiano, Deputato tra il 1987 e il 1992 (Camera dei deputati), nonché membro della Commissione Giustizia e consulente per la Commissione parlamentare antimafia, è docente di Storia della criminalità organizzata all’Università di Roma Tre.
Sono trascorsi 45 anni dalla sera in cui sparano nel buio contro Peppe Valarioti, segretario del Pci di Rosarno. Due colpi ben centrati troncano di netto la sua giovane vita. Quella sera si festeggiava il fatto che il Pci alle elezioni era andato avanti del 4 percento. Lo uccidono quando esce dal ristorante con i suoi compagni. Avrebbero potuto ucciderlo in qualsiasi momento, di sera quando andava a portare in garage la sua auto per poi ritornare a piedi a casa. E invece mandano un segnale politico utilizzando uno che sa sparare perché i colpi centrano solo lui.
Valarioti aveva salutato al mattino Carmela Ferro, la sua fidanzata dandole appuntamento per il giorno dopo; i due dovevano sposarsi ed era già stata fissata la data del matrimonio. Prima di uscire per l’ultima volta da casa disse alla madre di avvertire il padre che il giorno dopo lo avrebbe aiutato in campagna. Anche se era un giovane intellettuale e insegnava in un paese vicino, proveniva dal mondo contadino ed era molto legato al suo mondo.
I comunisti erano convinti che nel paese dove il capobastone riconosciuto da tutti era Giuseppe Pesce, un omicidio del genere non potesse che essere opera della ’ndrangheta che aveva voluto impedire a quel giovane di proseguire nella sua opera di denuncia dell’affarismo politico-mafioso e del rinnovamento del suo partito e della cooperativa agrumicola. Ma i mandanti e l’esecutore materiale non furono mai individuati.
Alfredo Reichlin, direttore de “l’Unità”, in un fondo di prima pagina colse l’importanza del lavoro svolto dal giovane segretario del PCI: “senza quadri comunisti come lui quella zona della Calabria non sarebbe – come è – terreno di scontro tra democrazia e mafia: sarebbe il regno incontrastato di un nuovo feudalesimo senza legge, soprattutto senza speranza di riscatto per la povera gente”.
Questa era la posta in gioco. Per questo era chiaro che si trattava di un omicidio di mafia, anzi politico-mafioso, anche se il sindaco cercò di depistare dicendo che era legato a fatti di donne. Ma la pista passionale evaporò ben presto.
Venne alla luce un fatto “inquietante”: la procura della Repubblica di Reggio Calabria non era neppure a conoscenza che il boss mafioso di Rosarno che era in carcere all’Asinara aveva soggiornato a Rosarno per un lungo periodo. Era giunto in paese per trovare la madre ammalata, ma quando questa morì continuò a rimanere a Rosarno a fare campagna elettorale.
Che la ’ndrangheta avesse nel mirino il Pci e alcuni suoi dirigenti era del tutto chiaro, anche a chi non voleva vedere. Valarioti è stato ucciso dalla ‘ndrangheta di Rosarno perché con il suo impegno politico voleva restituire dignità ai cittadini del suo paese insegnando lo a non piegare la testa davanti ai soprusi e alla violenza mafiosa. Voleva il riscatto della sua gente e della sua cittadina.
Valarioti vive nel ricordo della Calabria migliore, nei libri e nei tanti scritti su di lui, nella casa del popolo a lui dedicata a Rosarno, nella piazzetta che a Roma porta il suo nome, nella Mediateca Giuseppe Valarioti dell’associazione daSud a Roma, e nel docufilm Madma non si piega appena uscito.









