Gennaro “Rino” “Ringhio” Gattuso è l’uomo del giorno. Tutta l’Italia del calcio si affida a lui per risollevare le sorti della Nazionale e più in generale agli “azzurri per l’azzurro” come da slogan confezionato per uscire fuori dall’impasse. E Rino ha tanta voglia di cimentarsi in questa nuova avventura. Il nostro omaggio non può essere che quello di ripercorrere le tappe salienti di quello che è il legame indissolubile con la sua terra, con la Calabria e in particolare con Schiavonea, descritto in maniera bellissima nella sua biografia ufficiale: “Se uno nasce quadrato non muore tondo”.
IL FIGLIO DI MASTRO RINO (https://www.iacchite.blog/luomo-discende-da-gattuso-il-figlio-di-mastro-rino-da-schiavonea/)
GATTUSO E SCHIAVONEA
Non è mica facile essere figli d’arte. Pure un mostro sacro come Paolo Maldini ha fatto fatica quando ha iniziato a giocare nel Milan. Tutti che lo guardavano torvo solo perché suo padre Cesare aveva vinto tutto con la maglia rossonera. Nel mio piccolo, anche a me è capitata la stessa cosa. E’ per questo che fino a undici anni e mezzo non ho mai giocato su un campo vero, ma solo sulla spiaggia. Mi davano fastidio certe voci, certe malignità sul mio conto quando mi presentavo alla squadra del paese. “Eh già, tu giocherai solo perché sei il figlio di Franco Gattuso!”, oppure “Sei un raccomandato!”. Mio padre era un calciatore piuttosto noto in zona, ed essere suo figlio, calcisticamente parlando, mi ha complicato la vita. Aggiungiamoci poi che ero un bambino abbastanza discolo e vivace e per me le porte del calcio ufficiale si chiusero ancora prima di iniziare. Però mi rimaneva il mio calcio, quello puro, divertimento e gioco al cento per cento. Ore e ore passate su quei sassolini che si attaccano alla pianta del piede senza darti scampo. Io avevo la mia combriccola di amici, tutti ragazzi della mia età che abitavano a ridosso della mia porzione di spiaggia. Ognuno col suo soprannome, perché dalle mie parti è quasi un dovere averne uno: c’era Antonio capo di vacca, perché aveva la testa grossa; Oto, un ragazzo bello cicciottello; il Puffo, chissà perché lo chiamavano così visto che era già alto 1 metro e 90…; l’Uomo Tigre, forse in onore del cartone animato di quegli anni; e poi Ciro il bastardo, vattelapesca da dove derivava quel nomignolo; e infine io, il figlio di Mastro Rino. Questa era la formazione ufficiale, anche se man mano si aggiungeva sempre qualcun altro perché l’ingresso era libero, tutti potevano giocare. Quello era il calcio dei sogni in cui ognuno poteva immaginare di essere il suo eroe preferito, era il calcio della fantasia, senza i tatticismi e gli isterismi che talvolta condizionano lo sport professionistico. Ed erano sfide all’ultimo respiro, piene di gol, scivolate, emozioni.
Funzionava così: ogni quartiere aveva la sua squadra e giocava sulla sabbia “amica”. Di conseguenza, ogni zona del paese possedeva il suo “campo”, che noi bambini ribattezzavamo con i nomi degli stadi più importanti del mondo: San Siro, Wembley, Bernabeu. Si iniziava a giocare appena dopo pranzo, e finché non sentivo la voce di mia madre, “Rinoooo, Rinoooo!” che mi chiamava dal balcone me ne rimanevo lì ad inzupparmi nella sabbia, a correre come un disperato per aiutare la mia squadra a vincere. La domenica di solito era il giorno della grande sfida, quando si metteva in palio la Coppa. Si trattava di partite organizzate con il passaparola: “Ehi, guarda che quelli del Wembley hanno comprato la Coppa per domenica. Fatti trovare alle 9,30 in spiaggia e porta mille lire. Così si andava in trasferta, a un chilometro di distanza, 11 contro 11, e chi vinceva la Coppa se la teneva una settimana a casa. Anche se, a volte, quelli che la compravano se la volevano tenere loro: era la legge del padrone, un po’ come capitava con quello che portava il pallone e che voleva sempre comandare.
Ma il calcio non era solo uno sport da spiaggia, ci seguiva dappertutto, giocavamo in piazzetta, usavamo le saracinesche dei garage come porta e poi via a gare interminabili a “dieci gol” con il nostro SuperTele da 1500 lire: quanti palloni sono finiti in cima ai balconi, poi per andarli a recuperare bisognava scalare le canalette dell’acqua, una bella faticaccia.
2 – (continua)









