Sbarra e i metalmeccanici di Bologna: la Cisl ha tradito la sua storia
di Franco Monaco
Fonte: Collettiva
I lavoratori che hanno manifestato per tre quarti d’ora per il rinnovo del contratto sono stati avvertiti che rischiano fino a due anni di galera. Lo segnaliamo al neo sottosegretario del governo, ex leader nazionale sindacale. Non da oggi la Cisl non gode più del sostegno di una larga e qualificata cerchia di studiosi che contribuirono a farne il sindacato più autonomo, innovativo, pluralistico. C’è da domandarsi come la Cisl, con i suoi trascorsi, abbia potuto spingersi sino a questo limite
Ilavoratori metalmeccanici, non un manipolo di estremisti, che hanno manifestato per tre quarti d’ora sulla tangenziale di Bologna per il rinnovo del loro contratto, per iniziativa dei sindacati confederali tutti – Cisl compresa – sono stati avvertiti che, a norma del decreto sicurezza, rischiano non più una multa ma fino a due anni di galera.
Lo segnaliamo a Luigi Sbarra, neo sottosegretario del governo, e alla Cisl che hanno dato credito alla sensibilità dell’esecutivo per la partecipazione dei lavoratori. L’arruolamento di Sbarra, sino a pochi mesi fa leader nazionale Cisl, nel governo Meloni era nell’aria. L’indiscrezione girava già prima delle sue dimissioni dal vertice sindacale. E tuttavia essa rappresenta il sigillo di una svolta che ferisce tanti iscritti e dirigenti del sindacato bianco.
A essi ha dato voce Savino Pezzotta, certo non un uomo di sinistra, semmai un moderato, geloso custode dell’autonomia, tratto caratteristico della cultura e della storia della Cisl. Pezzotta è uomo che dell’autonomia del sindacato aveva fatto la sua divisa e la sua bandiera. Da segretario nazionale Cisl fu criticato da sinistra per avere siglato qualche accordo con governi presieduti da Berlusconi. Ma è evidentemente cosa diversa, in un certo senso opposta. Da controparte negoziale.
Chi un po’ le conosce – cultura e storia di quel sindacato – può ben comprendere la portata dello strappo. È notoriamente travagliata e dialettica la storia, remota e recente, dei rapporti con le altre due sigle confederali. Tuttavia, pur nelle diverse scelte contingenti circa i mezzi e i percorsi, ad accomunarle – e a considerare la tensione unitaria come un valore – sta la comune stella polare: la battaglia per il valore e la dignità del lavoro, per la condizione dei lavoratori, per il contrasto alle ingiustificate disuguaglianze sociali. Nonché la elementare consapevolezza che l’unità dà più forza alla difesa dei lavoratori.
Se la parola non fosse abusata ed equivocata potremmo parlare di una indole “riformista”. Intesa in senso forte e pregnante (non sinonimo di moderatismo adattivo allo status quo) ovvero come impegno organico teso a dare forma nuova ai rapporti sociali nella direzione di un di più di giustizia; dell’elevazione sociale e del protagonismo della classe lavoratrice. Perché il conflitto sociale ha assunto forme nuove, ma non è scomparso. Su queste basi non è un’obiezione ma piuttosto il contrario quella avanzata da chi rammenta che, in passato, vari ex dirigenti sindacali confederali siano poi approdati alla politica nelle formazioni riformiste. Non è un caso: non alle formazioni più a destra.
Sbarra si è parato dietro la foglia di fico di “indipendente”. La sostanza male dissimulata è che egli è approdato al governo grazie alla vicinanza politica a Meloni e al suo partito. Le cui ascendenze e la cui cultura politica sono assai lontane da quella dei sindacati confederali (la loro autonomia non è sinonimo di indifferenza). E che, nell’azione di governo, si è semmai vieppiù allontanata anche dalla originaria sensibilità sociale della destra missina. Di più: il premierato, cioè la «madre di tutte le riforme costituzionali» cui Meloni dichiara di non avere rinunciato – e che, a detta del meglio della cultura costituzionalistica, imprimerebbe una torsione autoritaria alla nostra Repubblica parlamentare – va esattamente nella direzione opposta a quella della visione sociale e istituzionale della Cisl: leaderismo, verticalizzazione del potere, disintermediazione, mortificazione dei corpi intermedi e del pluralismo sociale.
Quella tradizione sociale si segnala semmai per il suo contrario: il cosiddetto principio di sussidiarietà, la mediazione tra società e istituzioni in capo alle formazioni sociali, la partecipazione dei cittadini singoli e associati alle decisioni pubbliche. Una ben intesa concertazione. L’opposto della suggestione populista della “capocrazia”.
Del resto, va detto, non da oggi, la Cisl non gode più del consiglio e del sostegno di una larga e qualificata cerchia di studiosi (giuslavoristi, economisti e sociologi del lavoro) che contribuirono a farne il sindacato più autonomo, innovativo, pluralistico. C’è piuttosto da domandarsi come la Cisl, con i suoi trascorsi, abbia potuto spingersi sino a questo limite. Evidentemente essa sconta un vistoso difetto di democrazia interna. Ripeto: da tempo. Altrimenti si sarebbero registrate ben altre reazioni interne e non un anonimo mugugno; e le cariche apicali non sarebbero distribuite secondo logiche di sostanziale cooptazione dall’alto.









