Gradimento di sindaci e governatori: le classifiche (in)credibili: il festival delle chiacchiere

(di Paolo Natale – glistatigenerali.com) – Un sondaggio dai risvolti molto dubbi, a partire dai risultati. Se poi tutte le interviste sono state effettuate, si tratta di un costo complessivo di almeno 300mila euro. È giunto forse il momento di provvedere ad un’analisi accurata dei bilanci delle società demoscopiche.

Il rapporto tra media e istituti demoscopici pare ormai essere diventato una sorta di gioco di ruolo: alcuni (non tutti, per fortuna!) sondaggisti spacciano determinati (inaffidabili) sondaggi con l’obiettivo di fare parlare di sé, mentre i media che li ospitano accolgono ben volentieri l’invito a veicolarli affinché si parli anche di loro, di chi li ospita, con tanto di successivo dibattito, tra gli esperti della materia, i politici e i commentatori. Un circuito virtuoso, si diceva una volta; oggi potremmo parlare al contrario di circuito vizioso che si alimenta vicendevolmente. Chi ci va di mezzo sono soprattutto gli italiani, destinatari di informazioni a volte fallaci e, sebbene con meno evidenza o forse con meno interesse mediatico, il sapere e la scienza statistica.

Non occorre ricordare ancora una volta, biasimandolo, il consueto balletto delle stime sull’orientamento di voto: con cadenza settimanale, i quotidiani o i programmi televisivi parlano di grandi miglioramenti o peggioramenti per partiti che guadagnano o perdono 0,2-0,3 punti percentuali, quando nella realtà statistica si tratta di incrementi o decrementi inesistenti, una o due persone in più o in meno per quel partito. Battaglia persa, me ne rendo conto, ma quanto meno i dati presentati, loro sì, sono corretti. È la loro amplificazione apodittica che è fastidiosa alle orecchie di un metodologo o di uno statistico…

Abitudine diffusa, peraltro. Ricordo un uomo politico che, di fronte ad un sondaggio pre-elettorale che dava i due contendenti distanziati di 0,2%, ebbe il coraggio di chiedermi: sì, ma per chi?

A volte però capita qualcosa di più che fastidioso, che veicola informazioni approssimative e non attendibili, sulle quali si aprono dibattiti piuttosto surreali anche tra i partiti politici, basati sul nulla, o quasi. L’ultimo esempio in ordine di tempo di questo “fenomeno” è il sondaggio pubblicato dal Sole24ore lunedì 7 luglio, l’annuale rilevazione “Governance Poll”, in cui veniva presentato un dato chiamato “indice di gradimento” per 97 sindaci di capoluoghi di provincia e 18 Presidenti regionali.

Iniziamo proprio da questo indice, come viene appunto definito. Cos’è esattamente? Non è ben chiaro. Nella esaustiva scheda tecnica (troppo esaustiva, purtroppo per l’Istituto responsabile dell’indagine, sarebbe stato forse meglio restare sul vago…) viene correttamente riportata la domanda posta agli intervistati: “Le chiedo un giudizio complessivo sull’operato del sindaco (o del presidente della regione). Se domani ci fossero le elezioni comunali (o regionali), lei voterebbe a favore o contro l’attuale sindaco (o presidente della regione)?

Tralasciamo qui, per non appesantire il discorso, il fatto che molti dei sindaci o presidenti sono al secondo mandato e quindi non possono essere più votati. Ma in questo caso il senso è comunque chiaro…

Quello che invece non funziona è invece il fatto che questo è un tipo di domanda che, nei manuali delle survey, viene etichettata come “double-barreled”, vale a dire una doppia domanda con una sola possibile risposta. Qui le domande sono appunto due: la prima riguarda il giudizio sull’operato, la seconda l’orientamento di probabile voto. Se sono un cittadino veneto vicino al centro-sinistra, posso anche essere abbastanza soddisfatto di come ha governato Zaia ma certamente non lo voterei. O viceversa, se fossi un cittadino di centro-destra in Campania. Quindi: a quale domanda rispondo? Non si sa.

Viene poi presentato un approfondimento, anch’esso alquanto singolare: si confronta in maniera puntuale questo fantomatico indice di gradimento con il risultato fatto registrare da ciascun sindaco (o governatore) alle elezioni in cui è stato eletto! Sì, avete letto bene: come si diceva alle elementari, si paragonano le mele con le pere. Cosa possa c’entrare il gradimento attuale con la scelta elettorale di qualche anno addietro non è chiarissimo.

Prima di tutto, perché la popolazione di riferimento cambia in maniera significativa: il sondaggio si riferisce a tutti i cittadini maggiorenni, i risultati dell’elezione del primo turno coinvolgono soltanto i votanti (ultimamente compresi tra il 50 al 60% della popolazione), che si riducono ulteriormente in occasione del ballottaggio. Confronti dunque impossibili a farsi.

Inoltre la competizione elettorale, inutile soffermarci più di tanto, ha delle dinamiche sue proprie e dipende spesso dai contendenti in lizza; ha poco a che vedere con questo indice di gradimento, oltretutto perché il confronto viene fatto non con il risultato del primo turno, che porrebbe tutti allo stesso livello, ma con quello che ha determinato la vittoria.
Un esempio chiarisce il punto: il sindaco di Bari, Vito Leccese, ha ottenuto il 48% al primo turno (con 4 candidati) ed è stato eletto al ballottaggio con oltre il 70%, quando i contendenti erano ovviamente soltanto due.

Nella tabellina pubblicata, Leccese risulta in deficit di gradimento di quasi 10 punti, avendo ottenuto un indice di 61, ma se l’avessimo confrontato con il dato del primo turno, risulterebbe più “gradito” di ben 12 punti. Il risultato al ballottaggio è sempre ovviamente più alto del primo turno: ne risultano svantaggiati, in questo particolare (e poco sensato) procedimento, coloro che sono stati eletti al secondo turno.
Una distorsione che, per fortuna, non sussiste almeno per le elezioni regionali, dove il turno è stato unico dovunque e quindi da questo punto di vista il paragone è corretto.

Fin qui dunque le distorsioni nel merito del sondaggio effettuato. Veniamo ora al metodo, che certamente richiede un surplus di fiducia nei confronti dell’Istituto di ricerca che ne è responsabile. Partiamo dalla numerosità campionaria, che viene indicata in 1000 individui intervistati nelle regioni e in 600 nei capoluoghi. Possiamo supporre, benché in questo caso non ci venga fornito il dato puntuale (che sarebbe obbligatorio inserire nella scheda metodologica, peraltro non presente nell’apposito sito “Sondaggi politico-elettorali”), che le non-risposte siano – per difetto – nell’ordine del 15%. Le interviste valide sarebbero 500 circa per comune, da Milano fino ad Enna.
Il famoso “intervallo di confidenza”, cioè il margine di errore delle stime presentate, è dell’ordine di +/- 4%. Se ottengo una stima del 51%, il risultato “vero” si situa dunque in un intervallo compreso tra il 47% e il 55%.

Se andiamo a controllare la tabella pubblicata, possiamo notare facilmente come tutte le stime di gradimento dei 97 sindaci (tranne in 12 casi) sono comprese proprio tra i 47 e i 55 punti percentuali. Il che significa, in parole semplici, che possiamo essere certi solamente dell’eccellenza dei primi 7 e della relativa insufficienza degli ultimi 5 in classifica.

Di tutti gli altri sappiamo poco di più, al di là di quell’intervallo di valori possibili. Un sindaco che risulta al trentesimo posto, ad esempio, potrebbe essere in realtà al decimo, cambiando il senso di tutta la classifica. Certo, se un sindaco o un governatore ottiene un punteggio di 55 e un altro quello di 47, possiamo correttamente pensare che il primo stia molto probabilmente davanti al secondo, ma non sappiamo esattamente di quanto. Così alla fine la cosa più corretta da fare sarebbe forse quella di presentare una classifica “senza” il dato puntuale, ma soltanto con un raggruppamento in classi, tipo “tra 45 e 50, tra 50 e 55”, e così via. Non si perderebbero informazioni essenziali mentre si eliminerebbero quelle imprecise od erronee.

Ma è l’ultimo elemento di questo sondaggio che rende perplessi tutti gli osservatori neutrali: l’elevatissimo costo dell’intera operazione. Vediamo brevemente in cosa consistono le perplessità: come riportato, sono stati intervistati 600 individui in 97 comuni e altri 1000 nelle 18 regioni, per un totale di 76.200 casi, in parte online (web survey) in parte al telefono (Cati).

Normalmente, il costo di ognuna delle interviste, in media tra i due metodi, è stimabile in almeno 4 euro l’una. Senza voler fare i conti in tasca né al committente né all’Istituto che ha realizzato le interviste, se tutte le interviste sono state effettivamente effettuate, si tratta di un costo complessivo di almeno 300mila euro. Liberi di credere se questo sia stato un investimento, chiaramente in perdita, oppure no. Forse, considerato tutto quanto si è detto, è giunto ora il momento di provvedere – da parte degli organi competenti – ad un’analisi accurata dei bilanci delle società demoscopiche. Meglio tardi che mai.

Università degli Studi di Milano