“Paola. Fiordalisi, il Pm che ama clamore e potere”. La memoria comunista di Enrico Fierro

Domenico Fiordalisi

Se Enrico Fierro non fosse morto poco meno di quattro anni fa, avrebbe commentato da par suo la vicenda dell’omicidio Losardo e della strombazzata riapertura del caso da parte di uno dei magistrati più impresentabili del nostro Paese, Domenico Fiordalisi. Sì, perché Enrico Fierro, giornalista comunista per antonomasia, si era occupato in prima persona di questo soggetto e chi l’ha conosciuto o chi ne ha letto le inchieste e gli articolo, sa bene che aveva una cura maniacale nel trattare notizie invise al potere.

Fierro, campano di Avellino, dopo la stagione dell’impegno politico militante nel Pci, era arrivato al quotidiano comunista l’Unità, dove divenne inviato speciale. Poi una lunga esperienza a Il Fatto Quotidiano. E, poco tempo prima di morire, il passaggio al Domani. Amava la Calabria e per la pubblicazione del volume “La Santa – viaggio nella ‘ndrangheta sconosciuta” aveva ricevuto il Premio Globo d’Oro 2007/2008, il Premio Paolo Borsellino 2007 ed il Premio Itaca 2008 promosso dall’associazione universitaria Ulixes.

Il suo ultimo direttore, Stefano Feltri, lo ricordava così: «Enrico ha dimostrato in una carriera lunga e integerrima che per un giornalista l’indipendenza è prima di tutto una condizione dell’animo, una tensione verso la giustizia. E che quindi si può essere politicamente impegnati e intellettualmente indipendenti, aggressivi e implacabili con chi è potente e lo merita ma, al contempo, compassionevoli con chi è caduto». Era stato, infatti, strenuo difensore di Mimmo Lucano, unico cronista ostinato a seguire tutte le fasi del processo di Locri. Enrico che amava e comprendeva di cinema ne aveva fatto uno spettacolo teatrale, “Riace social blues”.

Fierro ha sempre raccontato i territori con i piedi ben saldi sul posto, non dalle stanze delle redazioni romane. Non ha mai risparmiato giudizi urticanti sui mali della Calabria e non ha mai perso la tenerezza nel narrarla. A chi ha conosciuto Enrico per motivi professionali resterà l’esempio di un giornalista vero, lontano dai compromessi, dedito al suo mestiere.

Nel 2007 il documentario (accompagnato a un volume con lo stesso titolo) “La Santa. Viaggio nella ‘ndrangheta sconosciuta”, realizzato con a Ruben Oliva, ha aperto uno squarcio sul salto di qualità compiuto dai clan calabresi in un’era in cui la narrazione nazionale era quasi ferma a coppole e lupara.

Fatta questa doverosa e necessaria premessa, siamo pronti per riportare un suo articolo pubblicato da l’Unità e risalente al 2002 nel quale ci tratteggia il ritratto del magistrato Fiordalisi, all’indomani di una delle sue tante inchieste farlocche e calate dall’alto, quella sui No Global… Ma già prima di allora aveva rivelato la sua “natura” insabbiando clamorosamente – da giovane magistrato nel verminaio della procura di Paola – il caso della studentessa Roberta Lanzino, barbaramente uccisa nei pressi di Falconara. Ma anche il caso della Jolly Rosso, che trasportava i veleni nel Tirreno Cosentino. Prima di buttarsi a capo fitto contro i compagni antagonisti. E proprio dopo la tragicomica operazione No Global, condotta da pm del porto delle nebbie di Cosenza su mandato dei Ros e del procuratore corrotto Serafini, aveva scritto un memorabile “pezzo” sulla “foca ammaestrata” ovvero Fiordalisi. Che riportiamo di seguito. E che non ha bisogno di commenti.

Fiordalisi, il pm che ama clamore e potere

di Enrico Fierro
Fonte: L’Unità-Novembre 2002

ROMA Il dottor Domenico Fiordalisi è tranquillo. Tranquillissimo. Nel suo ufficio di Cosenza continua a studiare intercettazioni, relazioni, carte e appunti della maxi-inchiesta su no-global e sovversione. Una cosa più di tutte, in questi giorni di bufera, lo fa sorridere: l’accusa di essere stato, come dire, il «terminale» operativo dei desiderata del Ros dei Carabinieri. L’unico magistrato, per dirla con maggiore nettezza, ad avere aperto un procedimento penale sulla base di quel lavoro investigativo. Perché lui, il sostituto Fiordalisi, non ha sempre avuto rapporti idilliaci con L’Arma dei Carabinieri.

Sfogliamo la relazione finale di una ispezione ministeriale che l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli ordinò sulla procura di Paola, dove il dottor Fiordalisi era giovane pubblico ministero, firmata dal magistrato ispettore Francantonio Granero. L’ispettore racconta fatti e fa considerazioni.

Eccone una: «Ci si imbatte spesso nella constatazione che l’esercizio della potestà penale, magari soltanto minacciato, appare in qualche modo condizionato e orientato da motivazioni ed impulsi personali tesi ad altri scopi…Questo modo impulsivo di procedere presta il fianco a sospetti di strumentalizzazione che finiscono per inquinare, anche quando c’è, lo stesso fondamento delle azioni intraprese e per minare la fiducia nell’equilibrio e nella ponderatezza del procedente».

E ora alcuni fatti. Alla procura di Paola in quegli anni i rapporti tra magistrati e polizia giudiziaria non erano dei migliori. «Nel dottor Fiordalisi, come già nel dottor Belvedere (un altro sostituto, ndr), vi è un modo di intendere la funzione di magistrato della procura che tende a sovraesporre il magistrato stesso, facendogli impersonare un ruolo che non è il suo», è scritto nella relazione. A Paola, ad esempio, i carabinieri si permisero di fare un blitz antiassenteismo presso la Usl di Amantea, dove lavorava (annota l’ispettore) la moglie del dottor Fiordalisi. Apriti cielo. Il magistrato sollecita un collega affinché «intervenisse per stigmatizzare e impedire per il futuro controlli antiassenteismo».

«Non è dato sapere – nota l’ispettore ministeriale – la ragione che spinse il dottor Fiordalisi a sollecitare un simile intervento. Si possono formulare soltanto delle ragionevoli ipotesi. Egli, rilevato che la moglie era quel giorno regolarmente in servizio, sente il bisogno di precisare che, fatte salve alcune saltuarie assenze, la moglie stessa è risultata sempre regolarmente in ufficio». Lo stesso procuratore Arnoni (che nel ‘92 si dimise sottolineando «l’inutilità nella prosecuzione della sua attività»), «mette in particolare rilievo la posizione di contrasto non motivato con i carabinieri» e parla di «intervento poco felice del dottor Fiordalisi, in quel periodo pure lui in piena conflittualità con i carabinieri». La guerra con l’Arma tocca il suo apice con la richiesta del trasferimento di un brigadiere alla sezione di polizia giudiziaria.

La procura lo vuole, il comando dell’Arma dice di no. E allora il dottor Fiordalisi convoca il capitano dei carabinieri per avere in visione il Regolamento generale dell’Arma. L’ufficiale lascia il regolamento in macchina «evidentemente – annota l’ispettore del ministero – con la riserva di darlo o no in visione a seconda dell’andamento del colloquio». Che è burrascoso. «Ma siete impazziti! Mi impedite di prendere visione di una legge dello Stato! Io mi dimetto dalla magistratura se non riesco ad avere il vostro regolamento. Per non consegnarmelo lei deve opporre il segreto di stato ed io scriverò al presidente del consiglio dei ministri».

Il capitano dei carabinieri è allibito. Il magistrato inflessibile: «Lei ha il documento in macchina e non me lo consegna subito: vuole che firmi un decreto di perquisizione per la sua macchina? Posso farlo, sa».

Ma a Paola accadeva anche che un maresciallo dei Carabinieri venisse convocato alle undici di sera dal dottor Fiordalisi in un ristorante dove il magistrato era a cena con amici. Il sottufficiale, appreso di un attentato ad un politico locale, aveva informato un altro pm della procura, «alle 23,30, quando ero già a letto – racconta il maresciallo – fui chiamato da un sottoposto che mi disse che il dottor Fiordalisi voleva parlarmi». Al ristorante. «Ci appartammo e lui mi chiese conto del motivo per cui non lo avevo avvertito». Questa convocazione notturna – nota l’ispettore Granero – «assume un rilievo nettamente dimostrativo del “potere”, perché per informarsi bastava una telefonata».

Nota finale nella relazione: «Entrambi i sostituti (il dottor Fiordalisi non avvertito dal maresciallo, e il suo collega, ndr) risultati assai sensibili alle lusinghe dei fatti che possono suscitare clamore, ambivano a poter intervenire». Il guaio è sempre dei fatti «che possono suscitare clamore».