LAVORO&SOCIETÀ
Mimì De Paola demistifica il mito della piccola impresa familiare, “vera forza del tessuto economico italiano”, a partire da alcuni episodi di attualità del mondo del lavoro.
IL PAESE DELLE MEZZE CLASSI
Nelle scorse settimane i giornali hanno pubblicato diversi articoli su casi di piccoli supermercati a conduzione familiare indipendenti o affiliati a grandi catene della GDO, che pagano i dipendenti dai 700 agli 850 euro al mese per lavorare fino a 10 ore al giorno e fino a sei giorni a settimana. Una variazione su tema rispetto ai consueti ristoratori e ai balneari che vanno sui giornali millantando di offrire stipendi da favola ma di non trovare dipendenti.
Un giorno qualcuno dovrà condurre uno studio approfondito e minuziosissimo sulle particolarità della formazione politico-sociale piccolo-borghese italiana, soprattutto a partire dagli anni Venti del Novecento, per capire da dove vengono fuori le paturnie di massa che caratterizzano questo paese, e perché periodicamente minoranze organizzate debbano far fronte a ondate di dilagante fetenzia che tracima dai tombini. Si pensi ai due anni in cui siamo stati esposti quotidianamente alle interviste di ristoratori e bottegai che piangevano miseria come se fossero stati le principali vittime della pandemia.
A un primo sguardo, a me pare che nel nostro paese, sebbene la grande borghesia privata o statale sia sempre stata economicamente dominante, non sia mai stata veramente egemone sul piano politico (se non, forse, per brevi periodi) perché non è mai stata in grado di far aderire l’insieme della popolazione alle sua ideologia.
L’Italia è il Paese delle mezze classi, della cui ideologia provinciale e reazionaria il paese è impregnato fino al midollo.
Fino a qualche tempo fa, la grettezza e la ferocia di questa ideologia erano appena compensate dalla forza del movimento operaio, dalla capacità di azione politica della grande borghesia e dalla presenza di partiti di massa che erano anche centrali di educazione politica collettiva (senza darne qui giudizi di valore).
Poi, con la crisi della “Prima Repubblica” e la transizione capitalistica incompiuta fino ai giorni nostri, tutto questo è venuto meno, lasciando campo libero all’azione politica indipendente della piccola borghesia (quasi un ossimoro!).
In particolare, si sono attivati rabbiosamente quei settori a cui la crisi ha chiuso le prospettive, per quanto spesso illusorie, di scalata sociale, di benessere economico, di agiatezza e prestigio sociale.
Da qui nasce tutto ciò che vediamo oggi, come sviluppo delle premesse prodotte dalla fine degli anni Settanta, e che si è tradotto politicamente nella rincorsa di tutti i partiti al “ceto medio moderato” e diversi anni fa nel governo reazionario gialloverde, perfetta quanto incompresa incarnazione dell’alleanza tra la piccola borghesia leghista del nord e il notabilato a cinque stelle del meridione.
Invidia e ammirazione per i ricchi e i potenti, rancore e ferocia nei confronti di chi è più in basso nella scala sociale (sacro terrore delle classi medie!).
Ma più ancora, odio viscerale nei confronti di chi dimostra praticamente che l’umanità non è tutta fatta a immagine e somiglianza del piccolo-borghese: viscido, lecchino, calcolatore, ossequioso con i potenti, sprezzante con i lavoratori e i poveri, sbruffone, arrogante, ignorante e fiero di essere tale, arrivista.
C’è anche chi, pagando in prima persona, sceglie un’ideale, sceglie un impegno, sceglie una missione che non ha altre considerazioni se non quelle etiche e soprattutto difende una condizione di classe differente, superiore o inferiore, ma comunque più determinante. Ed è questo che manda in bestia il borghese piccolo piccolo: la consapevolezza, a malapena soffocata, della meschinità della propria condizione.
Mimì De Paola
puntocritico.info









