I cortei e la solidarietà non fermano le bombe su Gaza. Serve altro

“Che si abbia il massimo della documentazione possibile – che siano registrazioni filmate, fotografie, testimonianze – perché arriverà un giorno in cui qualche idiota si alzerà e dirà che tutto questo non è mai successo”. 

Così parlò il generale Eisenhower nel 1945, dopo aver visitato il campo di concentramento di Ohrdruf, uno dei primi a essere liberati dagli americani. Fece fotografare tutto. Filmare tutto. Chiamò i giornalisti, i parlamentari, i vertici militari. E poi costrinse mille cittadini tedeschi di Weimar, il paese vicino al campo, ad attraversare a piedi quel luogo di sterminio. Voleva che vedessero. Che sentissero. Che non potessero più dire “non sapevamo”. Organizzò una mostra degli orrori, li mise davanti ai cadaveri, alle fosse comuni, ai forni, ai mucchi di corpi. Se solo l’America ricordasse davvero tutto questo. Ricordasse non solo le immagini, le parole, i documenti, ma il senso di quel gesto: entrare nei campi per liberare i prigionieri e fermare lo sterminio; documentare l’orrore per impedirgli di ripetersi, non per archiviarlo tra le memorie ufficiali. Se solo ricordasse da che parte si stava, quando si costringevano i cittadini a guardare i cadaveri, non a voltarsi dall’altra parte. Forse oggi non sosterrebbe chi i campi li sta costruendo di nuovo. Forse oggi non armerebbe chi assedia, affama, rade al suolo. Forse tornerebbe a Gaza non per proteggere chi bombarda, ma per salvare chi sopravvive.

La testimonianza, oggi come allora, è fondamentale. Lo sapeva Eisenhower, che documentò tutto proprio per impedire che qualcuno potesse negare l’orrore. Ma è proprio ciò che oggi Israele — con il sostegno attivo degli Stati Uniti — vuole impedire. Gaza è diventata una zona di silenzio: sono stati uccisi quasi tutti i giornalisti palestinesi. Gli altri, quelli stranieri, sono stati bloccati, censurati, oscurati. La narrazione deve essere controllata. L’orrore non si deve vedere. Eppure, nonostante ogni sforzo per nasconderlo, l’orrore si vede. Lo conosciamo. È davanti ai nostri occhi. E continua lo stesso. E che la memoria non basta lo prova l’orrore di oggi a Gaza. Le immagini servono, le parole servono, le prove servono. Ma solo se c’è qualcuno che ha la forza per fermare ciò che documenta. Eisenhower ha potuto pronunciare quelle parole — e ha potuto costringere il mondo a guardare — solo perché aveva opposto i carri armati americani a quelli tedeschi. Perché aveva vinto.

Perché se la memoria ha davvero un senso, dovrebbe servire a impedire che l’orrore si ripeta. E invece oggi si ripete. Con le stesse dinamiche, lo stesso silenzio, lo stesso disprezzo per la vita. Ma con un’aggravante che pesa come un macigno: stavolta lo fa chi dovrebbe sapere cosa significa. Ma il fatto più intollerabile è che, pur sapendo — a differenza dei tempi di Eisenhower — pur vedendo tutto in tempo reale, non riusciamo a fermarlo.

Ed è qui che inizia il nostro fallimento: c’è un punto che facciamo fatica ad ammettere, anche a noi stessi. E cioè che per quanto possiamo indignarci, per quanto possiamo riempire le piazze, firmare appelli, urlare sui social, il genocidio a Gaza continua. E continua proprio mentre noi facciamo tutte queste cose. Non basta: nel profondo lo sappiamo. Serve altro. Serve qualcosa di più. Perché un genocidio non si ferma con le manifestazioni, né con le risoluzioni dell’ONU che restano carta. Un genocidio si ferma solo con la forza. Non c’è un’altra alternativa. E questa è la parte che nessuno vuole dire apertamente. Possiamo scrivere, documentare, protestare. Possiamo denunciare, boicottare, invocare giustizia. Tutto giusto. Tutto necessario. Ma intanto i bambini continuano a morire. Gli ospedali vengono distrutti. Le città spianate. La fame usata come arma. E il mondo si limita a osservare.

Quella messa in atto da Israele non è una guerra di difesa. È una guerra di espansione. Israele vuole la Palestina. Tutta. Senza eccezioni, senza confini. E chi oggi governa a Tel Aviv lo ha detto chiaramente. Non ci sono zone grigie. Non c’è più spazio per l’equilibrismo diplomatico. E non c’è manifestazione o indignazione corale che possa fermare questo. la verità è che non c’è nessuno in grado di fermarli. Nessuno che possa opporsi davvero alla volontà americana che protegge, finanzia, legittima tutto questo. Nessuna forza internazionale che possa davvero dire: basta. Ogni tentativo viene bloccato. Ogni mediazione è finta. Ogni indignazione istituzionale è una foglia di fico per coprire l’inazione.

In tutto questo è giusto manifestare. È giusto indignarsi. Ma dobbiamo sapere che in questo contesto non serve a niente. Se non a noi stessi. A discolparci. A dire, un giorno, quando tutto sarà finito, che eravamo dalla parte giusta. Che non eravamo complici. Che ci abbiamo provato. Ma la verità resta: Gaza muore. Anche ora. Anche mentre sfilano cortei a Londra, Parigi, Roma. Anche mentre ci commuoviamo davanti a un reportage. Anche mentre pubblichiamo un post o un reel di solidarietà. Anche mentre scriviamo parole come queste. E allora bisogna dirlo, anche se fa paura: forse l’unica vera risposta sarebbe andare lì. Tutti. Milioni di persone da ogni parte del mondo. Non con le armi, ma con i corpi.
Una carovana reale, non simbolica. Non per protestare, ma per entrare. E costringere il mondo a scegliere: o bombardare anche noi, o fermarsi.

Dovremmo avere il coraggio di fare un passo che nessuno oggi sembra disposto a fare: lasciare quello che stiamo facendo, sospendere la normalità, e partire. Rinunciare a qualcosa di nostro per qualcosa che non ci appartiene, ma che ci riguarda. Come fece San Francesco, quando si recò in Terra Santa durante la guerra. Disarmato. Solo. Per testimoniare. Per esserci. Non per vincere, ma per non voltarsi. Perché se non possiamo fermare la mano che uccide, possiamo almeno metterci in mezzo. Offrire il nostro corpo come ostacolo, come scelta. Non per salvare la Palestina, ma per salvare noi stessi dalla viltà. È un’utopia? Sì. Ma non più assurda dell’idea che basti un corteo per fermare un genocidio sistematico messo in atto da un potente esercito. Se non facciamo questo, se non andiamo lì in milioni, se non spezziamo questa distanza tra il nostro sdegno e la realtà, un giorno toccherà anche a noi sfilare. Non per fermare la strage, ma per guardarla da vicino, a cose fatte. Come i tedeschi costretti da Eisenhower a camminare tra i cadaveri. Costretti a vedere, quando ormai era troppo tardi. Per fermare un genocidio, la testimonianza da sola non basta. Questo ce lo insegna la storia.