COMUNICATO STAMPA
COLLETTIVO “L’AltraMarea”
In un momento storico in cui i diritti fondamentali vengono messi a dura prova, nasce a Cosenza L’AltraMarea, un collettivo di attivisti uniti dalla volontà di dare voce a chi spesso viene negata, con la finalità di denunciare le condizioni dei cittadini migranti all’interno dei centri di accoglienza governativi e dei centri di detenzione.
Il percorso di adattamento dei migranti nei nuovi contesti di approdo è spesso lungo e complesso, segnato da sfide emotive, sociali e culturali. Molti di loro devono affrontare non solo le difficoltà di integrarsi in un ambiente sconosciuto, ma anche il peso delle esperienze traumatiche vissute durante il viaggio. Durante il tragitto, infatti, molti migranti sono vittime di violenze, abusi e privazioni che lasciano cicatrici profonde, rendendo ancora più difficile il processo di ricostruzione della propria vita. Queste esperienze di violenza e sofferenza non solo segnano il loro passato, ma influenzano anche il modo in cui si confrontano con il presente e cercano di inserirsi nella società di accoglienza.
Accogliere con dignità non è una scelta, è un obbligo morale! L’AltraMarea si impegna a monitorare, informare e sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sulle criticità e le ingiustizie che ancora oggi angosciano i migranti in questi contesti. Il collettivo si propone di far conoscere le reali condizioni di vita all’interno dei centri di accoglienza, fare pressione sulle autorità e promuovere un cambiamento dell’attuale ordinamento giuridico in materia di immigrazione.
ACCOGLIENZA SOTTO ASSEDIO:
SCERIFFI, MINACCE E DEGRADO A CAMIGLIATELLO
22 luglio 2025, Camigliatello Silano
COLLETTIVO L’ALTRA MAREA
In Grecia la Fenice è una creatura mitologica che rinasce dalle sue ceneri. Si lascia bruciare totalmente, ma dalle sue spoglie emerge un piccolo uovo che viene scaldato dal sole, diventa grande e schiude un essere nuovo. E’ un simbolo di rinascita, quella necessaria alle persone costrette a fuggire dalla propria terra, persone che lasciano dietro di sé macerie, morti, affetti. La rinascita dal dolore migratorio dunque, dalle sofferenze, dai lutti, dalla violenza, dalla tortura. E’ singolare che l’ex Hotel “La Fenice” (uno dei non-luoghi identificati giuridicamente con l’acronimo C.A.S.), deputato ad accogliere persone che portano addosso i segni fisici e psichici della sofferenza rappresenti invece l’antitesi della rinascita. Nel 2016 avevamo denunciato una tragica situazione di malaccoglienza, di violazioni quotidiane dei diritti essenziali dei migranti, parcheggiati come pacchi nella struttura gestita al tempo dall’Associazione ANIMED. Siamo tornati a Camigliatello, a distanza di 9 anni, in seguito a numerose denunce da parte dei migranti “ospiti” del centro. Siamo tornati per renderci tristemente conto dell’involuzione nella gestione del CAS (ma in generale di tutto il sistema dell’accoglienza), con buona pace delle istituzioni delegate al monitoraggio del corretto funzionamento di tali strutture.
Incontriamo T., ospite del Centro di Accoglienza Straordinario Unytest, allestito all’interno dell’ex hotel La Fenice, precedentemente gestito da ANIMED e oggi “controllato” da Alprex S.a.s. “Controllato”, perché ciò che normalmente avviene in tali luoghi è il controllo delle vite di persone alle quali spesso non vengono garantiti i diritti fondamentali.
L’ente gestisce due strutture a Camigliatello Silano: una a via Forgitelle (S.S.177) ed una all’interno del centro montano, in Via delle Ville. Una delle due, fino a qualche mese fa, ospitava i minori non accompagnati.
Il ragazzo appare teso, sin dai primi contatti con noi: lo sguardo si muove rapido da un angolo all’altro della via alla quale diamo le spalle, in cerca di chissà cosa; accende una sigaretta dietro all’altra, sono rare le occasioni in cui i nostri occhi si incrociano. Mentre parliamo, a turno, davanti al telefono che ci fa da interprete, si nota qualcos’altro nell’espressione sul suo viso, un misto di rassegnazione e paura, che poco spazio lasciano alla vaga possibilità di andarsene, partire, ricominciare a vivere. Il racconto quindi inizia, e leggiamo – non senza qualche difficoltà, almeno iniziale – dallo schermo dello smartphone la vicenda, velata a tratti dalla commozione, di T.
Partiamo dai bisogni primari, quelli che dovrebbero assicurare all’essere umano un livello fisico e psichico adeguato alla sua normale sopravvivenza.
Le foto ci mostrano il cibo servito all’interno di piatti di plastica sigillati – perché sicuramente preparati da mense esterne e in seguito consegnati al centro. I piatti evidenziano importanti rigonfiamenti della plastica, fenomeno comunemente noto come “bombaggio”, causato da fermentazione batterica o da reazioni chimiche del cibo conservato in maniera non adeguata. I piatti – che sembrano in procinto di scoppiare – emanano odori nauseabondi, ci racconta T., odori che di certo non invogliano a mangiare tali cibi, i quali – se consumati – rappresenterebbero un attentato alla salute di qualunque essere umano. Alle proteste da parte degli ospiti della struttura sulla qualità del cibo è seguita una secca risposta: “o mangiate questo o null’altro”.
Benché agli ospiti della struttura venga fornito il sapone, lavarsi all’interno delle docce del centro è più simile al passaggio in un girone infernale. I piatti doccia sono sporchi e incrostati. Le tende di plastica – che un tempo dovevano recare motivi sgargianti – adesso sono nere. La rubinetteria è assente e l’acqua fluisce direttamente da un tubo che, uscendo dal muro, lascia la parete della doccia striata di calcare e residui ferrosi, dal momento che l’arancione delle piastrelle non sembra di certo una scelta di arredamento.
A T., così come a tutti gli atri ospiti della struttura, sono stati dati un pantalone, una maglietta e una canottiera appena arrivato, 11 mesi fa. Poi il nulla. Non è possibile, inoltre, utilizzare la lavatrice, che i gestori del centro riservano ad uso esclusivo della direzione. Gli ospiti sono, dunque, costretti a lavare a mano i propri indumenti.
I materassi appaiono lerci, bucati, sfilacciati. Su gran parte di essi spiccano aloni gialli e marroni. Lo stesso vale per i cuscini.
Le camere in cui sono alloggiati i circa 150 ospiti della struttura sono umide, le pareti mostrano i segni di muffa e l’intonaco è spesso scrostato; condizione questa che causa il distacco dei telai delle porte, con conseguente rischio per la sicurezza personale.
I termosifoni, in inverno, funzionano solo un’ora al mattino e un’ora alla sera: per le temperature non proprio miti degli inverni silani non sono evidentemente sufficienti a permettere il riscaldamento, anche parziale, della struttura.
Tutto è, quindi, testimonianza dell’assenza di cura e manutenzione della struttura, della non celata volontà di mantenere delle persone – perché di questo parliamo – in uno stato di abbandono e trascuratezza, quasi non fossero umani, quasi ci si potesse dimenticare della loro esistenza.
Questi elementi già da soli basterebbero a dare l’idea dello stato di sofferenza fisica e psicologica in cui versano gli ospiti della struttura, ma ci sono almeno altri due punti che fanno da corollario ad una situazione ai limiti dell’umana comprensione.
Primo: nel centro non sono previste attività di alcun tipo. Ciò significa che gli ospiti – tutti estremamente giovani – trascorrono le loro giornate nell’inerzia: nessun corso di italiano, nessuna formazione, nessun supporto alla ricerca abitativa o lavorativa, nessuna possibilità di impegnare il tempo in qualcosa che non sia camminare su e giù sulla strada statale di Camigliatello o stare seduti sulle panchine dell’unica villetta o dei pochi bar presenti.
Tutti i migranti con i quali abbiamo parlato riferiscono che l’assistenza sanitaria è inesistente. I ragazzi provvedono in autonomia all’acquisto dei farmaci di cui necessitano, poiché nel centro viene somministrato loro sempre lo stesso antinfiammatorio, l’Oki.
Il centro non offre l’assistenza di psicologi, medici, avvocati (T. è in Italia da 13 mesi e non ha mai incontrato un avvocato del centro). Le figure presenti – 5 operatori – non hanno competenze in tal senso, non sanno rapportarsi con i migranti e la comunicazione da e verso di loro è lasciata alla responsabilità di un operatore di nazionalità algerina (presunto mediatore culturale) che – ci dice T.– “è un loro servitore e si guadagna da vivere”, sottolineando così l’ulteriore difficoltà di non trovare comprensione neppure fra chi – come lui – ha seguito lo stesso percorso all’intero dei Cas.
Si tratta di persone, spesso giovanissime, rese fragili dalla vulnerabilità sociale ed economica, dalle condizioni di malaccoglienza, dalla precarietà del loro status giuridico, vittime di discriminazioni e pregiudizi. Uomini, donne e minori che presentano esiti fisici e psicologici che sono conseguenze di gravi violenze vissute durante il percorso migratorio o nei paesi di origine. Persone con un elevato rischio di sviluppare sintomi o disturbi psichiatrici, malattie fisiche e disagio sociale, aggravati dalla mancanza di supporto psicologico. Le conseguenze di queste mancanze istituzionali le osserviamo quotidianamente nelle strutture di accoglienza, dove la sofferenza viene presa in carico solo quando raggiunge picchi di acuzie. O, ancor peggio, quando la reiterazione dei traumi subiti precedentemente e acutizzati dallo stato di abbandono nei CAS, fa sì che solerti gestori richiedano l’intervento del 118 o il trattamento sanitario obbligatorio per i “soggetti difficili da gestire”.
La comunicazione e la comprensione tra gli stessi migranti – di nazionalità diverse: egiziani, marocchini, bengalesi – è quindi estremamente difficile, ancor di più lo è quella coi gestori del centro, con la “direzione” che “mantiene la calma” con metodi da far west.
Assai inquietante è il racconto fatto da diversi migranti ospiti del centro: in più di un’occasione, un improvvisato sceriffo – il sig. Alessandro, membro della direzione – sembrerebbe aver utilizzato una pistola per spaventare ed umiliare i migranti del centro. E chi – come T. – esprime una qualche forma di protesta per le condizioni in cui si è costretti a vivere, ne paga le conseguenze: dopo aver contattato i carabinieri per denunciare le condizioni di vita del centro, lo stesso T., infatti, si è visto decurtare il proprio pocket money, previsto pari a 75 euro, di 25 euro mensili. E senza ricevere alcuna giustificazione, se non quella di perpetrare l’ennesimo sopruso. Altrettanto allarmante è la denuncia da parte di altri migranti i quali ci raccontano di un’aggressione fisica da parte dello stesso soggetto ai danni di un minore ospite del CAS. Un video girato in quell’occasione inchioda il “sig. Alessandro” quale autore della violenza. Ci chiediamo come sia possibile che coloro i quali dovrebbero tutelare persone tanto vulnerabili come i minori si rendano invece responsabili di atti così gravi. Ci chiediamo ancora cosa debba succedere affinché le istituzioni intervengano e venga riconosciuta dignità a persone sopravvissute a tragedie immense e traumi personali, affinché si smetta di considerarli al pari di sgualcite banconote ambulanti, utili ad alimentare il business di “gestori”, i quali altro non sono che spietati mercenari. Cambiano i “padroni”, rimane la stessa disumanità.
Per ulteriori informazioni, contatti e collaborazioni:
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Emilia Corea – tel: 3488417369
Carlo Stepancich – tel. 3792177791









