Crotone. La parabola di Konecta: da progetto “modello” a crisi annunciata: una storia di malasanità digitale

La parabola di Konecta a Crotone: da progetto “modello” a crisi annunciata: una storia di malasanità digitale
Fonte: U’Ruccularu

Il caso Konecta a Crotone rappresenta una vicenda emblematica di come un’operazione presentata come salvifica e innovativa possa trasformarsi, nel giro di pochi mesi, in una crisi occupazionale e gestionale. Tutto ha inizio con il tracollo del call center Abramo Customer Care, colosso calabrese in fallimento: circa 1000 lavoratori tra Crotone, Cosenza (Rende) e Montalto Uffugo rischiavano il licenziamento. A fine 2024 arriva quella che pare la svolta: un accordo istituzionale coinvolge Governo, Regione Calabria, sindacati e l’azienda multinazionale Konecta per salvare quei posti di lavoro, riconvertendo il personale in un progetto di digitalizzazione della pubblica amministrazione.

DAL CRAC ABRAMO AL “MODELLO CALABRIA”: IL SALVATAGGIO DA 20 MILIONI
La storia parte ufficialmente il 19 dicembre 2024. In un vertice presso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, la vertenza Abramo si chiude apparentemente in modo trionfale: viene siglato un accordo che salva circa 1000 posti di lavoro, trasferendo tutti i dipendenti della ex Abramo Customer Care alla società Konecta.
Il piano è ambizioso e inedito: i centralinisti verranno formati per occuparsi della dematerializzazione delle cartelle sanitarie calabresi, un progetto di digitalizzazione della pubblica amministrazione finanziato con 20 milioni di euro di fondi pubblici (15 milioni stanziati dalla Regione Calabria e 5 milioni dal Governo nazionale). L’obiettivo dichiarato è duplice: tutelare l’occupazione garantendo “piena continuità occupazionale” e identiche condizioni contrattuali per i lavoratori trasferiti, e al contempo migliorare i servizi pubblici con la digitalizzazione massiva di documenti sanitari.

L’accordo – salutato come “storico” – converte così una crisi aziendale in un’opportunità di innovazione. «Abbiamo trasformato una crisi in un’opportunità», proclama il presidente della Regione Roberto Occhiuto, rivendicando la portata innovativa del modello di riconversione. Il progetto, afferma Occhiuto, prevede un intenso reskilling: gli ex operatori di call center verranno riqualificati come operatori digitali, anticipando una soluzione che potrebbe essere «esportata anche ad altre vertenze occupazionali». Non a caso, lo stesso Occhiuto si reca personalmente, a marzo 2025, nelle sedi Konecta di Rende e Crotone per verificare l’avvio delle attività, esprimendo «soddisfazione per il traguardo raggiunto» e definendo visionario il modello di reinserimento dei lavoratori ex Abramo.
In concreto, dal 31 dicembre 2024 i lavoratori Abramo passano alle dipendenze di Konecta R S.r.l., filiale italiana del gruppo spagnolo (costituita ad hoc per questa commessa). Entro Natale, tutti i dipendenti in organico vengono riassunti, evitando licenziamenti collettivi e facendo leva elettorale sull’onda emotiva del natale. Si salvaguardano così, almeno formalmente, sia il reddito di circa mille famiglie sia le professionalità maturate in anni di lavoro.
Anche i 90 collaboratori a progetto (Co.Co.Co.) di Abramo – rimasti esclusi inizialmente da clausole sociali e ammortizzatori – trovano uno spiraglio: Konecta si impegna ad assumerli entro Pasqua 2025, una volta valutati i volumi di attività della digitalizzazione[8][9]. “Finalmente spiragli di ottimismo per gli ultimi 90 lavoratori a progetto, senza contratto dal novembre 2024”, annunciano i sindacati a fine marzo. La maggior parte degli altri – quasi 600 ex Abramo – è già stata contrattualizzata a tempo indeterminato grazie al progetto di digitalizzazione. Insomma, sulla carta “tutti i lavoratori coinvolti nella crisi verranno assunti prima di Natale”, garantendo un Natale di serenità alle loro famiglie, ad Occhiuto invece una parvenza da Babbo Natale.

La partenza del progetto è accompagnata da toni trionfalistici. «Si garantisce il diritto al lavoro a uomini e donne, e serenità alle loro famiglie», dichiara Occhiuto celebrando la positiva conclusione della vertenza. «Abbiamo ideato un modello innovativo… un modello al quale altri territori guardano con interesse», insiste il governatore, rimarcando come la Calabria abbia fatto squadra con il Governo e i sindacati per raggiungere un risultato definito “straordinario” termine amato dal governatore per celebrare qualsiasi cosa fatta dalla sua amministrazione. Lo sforzo pubblico è ingente, ma giustificato dalla prospettiva di avere servizi sanitari più efficienti e lavoro stabile in una terra affamata di occupazione. Purtroppo, come vedremo, a distanza di pochi mesi quella stabilità si rivelerà effimera e il “modello Calabria” tanto elogiato mostrerà crepe profonde.

PRIME CREPE SUL CAMPO: DEMANSIONAMENTI E ORARI “MASSACRANTI”
Già all’inizio del 2025, mentre i riflettori celebrativi si attenuano, dai lavoratori emergono i primi malumori. Non tutto, infatti, sta andando come promesso “nelle sedi istituzionali”. Un lungo comunicato scritto da un gruppo di dipendenti – e ripreso anche da parlamentari d’opposizione – svela una realtà ben diversa dall’enfasi ufficiale. In dettaglio, l’accordo del 20 dicembre 2024 garantiva a tutti i dipendenti ex Abramo la continuità occupazionale, contrattuale ed economica, con assunzioni a tempo indeterminato e mantenimento di livelli e stipendi. Ma tali condizioni, denunciano i lavoratori, sono state applicate in maniera difforme e parziale. «Paradossalmente, le stesse condizioni contrattuali sono state mantenute solo per i circa 290 lavoratori operanti sulle commesse Tim e Fibercop, ribaltati (giustamente) senza variazioni rispetto ad Abramo». Al contrario, il grosso del personale – circa 700 addetti destinati al progetto pubblico di digitalizzazione – è stato assunto con declassamenti e penalizzazioni economiche: «hanno ricevuto una proposta con demansionamento di un livello rispetto all’inquadramento di provenienza e conseguente taglio di stipendio. Addirittura due livelli in meno per alcune risorse di staff, con perdite fino a 12 mila euro annui». Altro che invarianza contrattuale: molti ex Abramo si sono ritrovati retrocessi di categoria dall’oggi al domani.

Non solo. La gestione post-transizione appare a due velocità, “due pesi e due misure”. Chi è rimasto su attività private (le commesse TIM/Fibercop) vede rispettati gli impegni, chi invece lavora sulla commessa pubblica finanziata dalla Regione paga il prezzo di «una gestione opaca e discriminatoria». Emblematico il caso della sede di Crotone: qui, i lavoratori dedicati alla digitalizzazione sono sottoposti a «turni estenuanti fino alle 23, festivi inclusi, non per reali esigenze di servizio ma per carenze strutturali». In pratica, l’ufficio di Crotone – ricavato in spazi inadatti e troppo piccoli – non riesce a ospitare tutti contemporaneamente, così l’azienda ha imposto una turnazione su 16 ore giornaliere, 7 giorni su 7, per far ruotare il personale in postazioni limitate. «Solo i lavoratori della digitalizzazione di Crotone, a differenza di quelli delle altre sedi, sono costretti a lavorare a turni dalle 7 alle 23, domeniche e festivi inclusi», scrivono esasperati, spiegando che questo non dipende da esigenze di servizio (non c’è un’utenza da presidiare a orario continuo) ma unicamente dalla sede inadeguata e sottodimensionata. In altre parole, “logica del minimo investimento per il massimo ricavo… senza alcuna considerazione delle risorse”, chiosano amaramente i dipendenti coinvolti.

Parallelamente, scoppia la polemica sulla stabilizzazione mancata degli ultimi precari. I 90 ex “Lap” (lavoratori a progetto) di Abramo che il progetto Konecta avrebbe dovuto salvare definitivamente, vengono sì assunti entro maggio 2025, ma con contratto a tempo determinato di 12 mesi. Per loro niente assunzione stabile immediata, al contrario di quanto lasciato intendere inizialmente. «Non è la stabilizzazione che ci era stata tanto annunciata e promessa», commenta uno dei lavoratori, dopo la firma del contratto annuale, «ma speriamo e ci aspettiamo che questo contratto sia poi trasformato a tempo indeterminato». Parole che tradiscono sollievo misto a delusione: il progetto “salva-lavoro” doveva togliere definitivamente dalla precarietà anche loro, invece li tiene ancora col fiato sospeso, appesi a una futura proroga.

Alla luce di queste criticità iniziali, alcuni rappresentanti politici intervengono. Il 7 maggio 2025 tre deputati calabresi del Movimento 5 Stelle – Vittoria Baldino, Anna Laura Orrico e Riccardo Tucci – depositano un’interrogazione parlamentare per chiedere verifiche sul rispetto dell’accordo Abramo-Konecta. “Digitalizzazione sì, ma non sulla pelle dei lavoratori!”, tuonano i parlamentari in una nota congiunta. Denunciano le «gravi disparità di trattamento denunciate dai lavoratori ex Abramo… costretti ad accettare demansionamenti fino a due livelli, perdite salariali fino a 12 mila euro l’anno e condizioni di lavoro inaccettabili». Citano esplicitamente i turni massacranti di Crotone, prolungati fino a tarda sera e nei festivi «non per necessità di servizio, ma per le carenze strutturali» della sede. E puntano il dito sul paradosso per cui un progetto finanziato con denaro pubblico per innovare e migliorare la sanità calabrese stia in realtà peggiorando la vita lavorativa di centinaia di persone: «Le risorse pubbliche non possono essere utilizzate per peggiorare le condizioni di chi lavora. Non si costruisce innovazione con lo sfruttamento. Non si digitalizza la sanità precarizzando il lavoro». Parole durissime, che mettono in imbarazzo le istituzioni regionali coinvolte e anticipano di fatto i problemi esplosi nell’estate.

DISORGANIZZAZIONE IN AZIENDA E STOP DEI LAVORI: L’ESTATE DELLA PROTESTA
Se nei primi mesi del 2025 i lavoratori lamentavano soprattutto aspetti contrattuali e organizzativi interni, con l’arrivo dell’estate la situazione precipita sul versante produttivo. Da luglio 2025 il progetto Konecta di Crotone si ferma, letteralmente, per mancanza di lavoro. Gli addetti alla digitalizzazione si ritrovano improvvisamente senza fascicoli sanitari da scannerizzare: le attività rallentano e poi vengono sospese del tutto. La causa? Un grave collo di bottiglia burocratico-organizzativo: le Aziende Sanitarie Provinciali (ASP) e Ospedaliere calabresi non forniscono più con regolarità i plichi di cartelle cliniche cartacee da digitalizzare.

In pratica Konecta, che dovrebbe trasformare in digitale quei documenti, resta a secco di materiale. Già a fine luglio la sede di Crotone viene chiusa all’improvviso per 3 giorni (25, 26 e 27 luglio) proprio a causa “della mancanza di materiale da lavorare”. L’episodio lascia interdetti i dipendenti, anche perché fino al giorno prima la dirigenza aziendale li spronava ad “accelerare le operazioni”, salvo poi comunicar loro da un momento all’altro di restarsene a casa per assenza di pratiche su cui operare.
A inizio agosto la situazione peggiora ulteriormente: Konecta decide di sospendere completamente l’attività a Crotone dal 6 al 24 agosto, mettendo in ferie forzate tutto il personale. La notizia arriva dopo un incontro tra azienda e rappresentanze sindacali: la direzione di Konecta R spiega la misura come inevitabile, vista la persistente assenza di cartelle cliniche su cui lavorare. I sindacati confederali contestano però la scelta unilaterale e notano disparità rispetto ad altri siti calabresi di Konecta: a Cosenza e Rende, ad esempio, lo stop estivo è più breve (qualche giorno di fermo produttivo, non tre settimane). Crotone sembra insomma pagare il prezzo più alto del blocco. Il confronto tra parti si chiude senza accordo: «non si è giunti a una posizione condivisa… L’azienda procederà unilateralmente all’applicazione di quanto comunicato» riferiscono le sigle, che dichiarano fallito il tentativo di conciliazione. A quel punto, i sindacati invocano apertamente l’intervento della Regione: «rinnoviamo con forza la richiesta al presidente Roberto Occhiuto, quale garante istituzionale del progetto, di convocare con urgenza le parti sociali… per affrontare le criticità emerse e individuare soluzioni a tutela del progetto e dei lavoratori».

Parallelamente, il fronte sindacale autonomo lancia accuse ancora più pesanti sulla disorganizzazione strutturale del progetto. Il sindacato Confial – che a Crotone organizza molti ex Abramo – parla senza mezzi termini di “paradossale situazione” e di progetto “nato male”. Il segretario provinciale Fabio Tomaino denuncia l’assenza di procedure chiare e scritte per il processo di digitalizzazione: «la procedura di digitalizzazione è nata da indicazioni verbali, confuse e incoerenti, che non solo generano caos operativo, ma espongono i lavoratori a rischi anche di natura penale. Il tutto in un clima di totale disorganizzazione». Secondo Confial, nei primi sette mesi sono emersi gravi ritardi e mancanze: molte postazioni risultavano ancora senza scanner e parte del personale lavorava senza credenziali di accesso ai sistemi informatici. La sede di Crotone – situata in locali messi a disposizione dalla società Romano, presso un’autostazione – viene giudicata insicura e inadeguata: non rispetta gli standard di sicurezza né è idonea per il numero di operatori previsti, tanto che nei mesi estivi si sono registrati “numerosi malori causati dalle alte temperature” (alcuni lavoratori sono finiti in pronto soccorso per collassi da caldo). Manca del tutto un controllo accessi: niente badge, niente sorveglianza – “la struttura risulta accessibile a chiunque” – con comprensibili rischi di sicurezza.

In questo contesto già precario, l’interruzione improvvisa delle attività (fine luglio e poi agosto) è la goccia che fa traboccare il vaso. «Qui non si innova, si improvvisa», attacca Tomaino in una nota stampa dal titolo eloquente. Confial rivela anche un fatto inquietante: l’azienda, pur essendo finanziata con denaro pubblico per creare occupazione, avrebbe proposto incentivi all’esodo ai lavoratori, cioè bonus economici per chi volontariamente lascia il posto. Una contraddizione clamorosa: come può un’impresa pagata per innovare la pubblica amministrazione usare quei fondi per spingere i dipendenti ad andarsene? L’accusa è grave e al momento Konecta non l’ha smentita pubblicamente. Inoltre – aggiunge Tomaino – non è stato rispettato l’accordo ministeriale del dicembre 2024 che prevedeva la stabilizzazione degli ex Abramo: «oggi sono inquadrati solo con contratti a tempo determinato», ricordando che molti di loro dopo il 31 ottobre 2024 erano senza occupazione e ora restano precari.

Di fronte a questa situazione caotica, cresce la mobilitazione. I lavoratori di Konecta Crotone organizzano un sit-in di protesta davanti al palazzo della Provincia. Il 6 agosto una folta delegazione di dipendenti scende in piazza chiedendo risposte sul loro futuro. Il presidente della Provincia di Crotone, Sergio Ferrari, li riceve e sposa le loro istanze: “Serve chiarezza” dichiara propagandisticamente, impegnandosi a farsi portavoce presso la Regione e a richiedere un tavolo tecnico urgente con azienda, Regione e ASP per sbloccare la situazione. Anche il mondo politico locale esprime solidarietà, o almeno cerca di fiutare il consenso elettorale: esponenti di varie forze (dal PD a Italia Viva) chiedono interventi immediati a tutela dei lavoratori e per non disperdere l’investimento pubblico. La parola chiave è “paradosso”: si pagano 1000 persone con fondi pubblici affinché lavorino, e invece si trovano impossibilitate a lavorare per pastoie burocratiche e mancanza di coordinamento.
Nel frattempo, le sigle confederali cercano di gestire l’emergenza quotidiana: diffondono comunicati rassicurando che le “attività di digitalizzazione non presentano criticità intrinseche” e che i rallentamenti sono dovuti esclusivamente ai tempi di consegna delle cartelle da parte degli ospedali. In una nota congiunta del 2 agosto, le RSA di Cgil, Cisl e Uil informano i lavoratori che l’azienda ha comunicato la necessità di sospendere temporaneamente il lavoro “per sabato, domenica e lunedì, in quanto le cartelle ricevute nei giorni scorsi risultano essere state già lavorate”.

I sindacalisti confederali propongono allora soluzioni tampone: riprogrammare l’attività su 5 giorni settimanali (lunedì-venerdì, con weekend liberi) durante il mese di agosto, e riaprire il piano ferie estivo per permettere a chi vuole di usare altre ferie nei periodi morti. Konecta, dal canto suo, avrebbe assicurato che valuterà queste proposte organizzative per evitare il ripetersi di simili stop in futuro. Inoltre, sempre secondo la versione delle RSA, l’azienda ha garantito che eventuali saldi ferie negativi (per chi è mandato in ferie forzate senza averne maturate a sufficienza) non saranno addebitati a fine anno, ma le ferie saranno via via reintegrate “senza penalizzazioni” per i lavoratori. Parole distensive, forse mirate a contenere la rabbia. Ma per molti dipendenti e per Confial queste rassicurazioni suonano vuote: la realtà quotidiana resta “un clima di totale disorganizzazione” in cui loro, i lavoratori, sono “vittime incolpevoli” di improvvisazione gestionale e scaricabarile di responsabilità.

Il quadro, dunque, a fine estate 2025 è a dir poco desolante: centinaia di lavoratori calabresi, inizialmente presentati come pionieri di un progetto innovativo, sono fermi senza lavoro, chiusi in casa in ferie obbligatorie o in attesa di indicazioni. La Confial parla senza giri di parole di “ennesimo sperpero di risorse pubbliche… anticamera di nuova disoccupazione” se le cose non cambiano. «Un progetto che doveva rappresentare un modello pilota per il Paese rischia oggi di diventare l’ennesimo spreco di risorse pubbliche… e l’anticamera di nuova disoccupazione», avverte Tomaino, che già a fine luglio aveva scritto a Occhiuto denunciando per iscritto questa “situazione tanto grottesca quanto pericolosa per il futuro occupazionale di centinaia di famiglie”. La Regione Calabria, aggiunge, non può permettersi di perdere un’occasione del genere. Il tempo dei proclami è finito: “Serve agire. Subito. Prima che sia troppo tardi”, è l’appello disperato di Tomaino ai primi di agosto.

LE PROMESSE DELLA REGIONE E IL “METODO OCCHIUTO”: INNOVAZIONE O PROPAGANDA?
In tutta questa vicenda, un attore chiave è la Regione Calabria, promotrice e finanziatrice del progetto. Il presidente Roberto Occhiuto in particolare ne è stato il principale sponsor politico. Fu lui, affiancato dall’assessore al Lavoro Giovanni Calabrese, a tessere la trattativa dell’autunno 2024 che portò all’accordo con Konecta. E sempre Occhiuto si intestò il merito del salvataggio, presentandolo come frutto di una sua visione innovativa per risolvere strutturalmente le crisi occupazionali. Vale la pena dunque interrogarsi sul ruolo della politica regionale e su come le promesse iniziali si siano confrontate con la realtà dei fatti.

Occhiuto aveva assicurato – nei comunicati ufficiali – la “piena continuità occupazionale e il mantenimento delle condizioni contrattuali” per tutti i lavoratori ex Abramo. Questo significava, nelle intenzioni dichiarate, nessun passo indietro su inquadramenti e stipendi, anzi prospettive di crescita in un settore nuovo. Inoltre il governatore aveva definito il progetto Konecta come un “modello ideato dalla Regione Calabria” in collaborazione col Governo, dal carattere potenzialmente replicabile a livello nazionale. Si trattava dunque di una scommessa politica importante, un fiore all’occhiello da esibire. Non a caso, nel marzo 2025, Occhiuto in visita ai centri Konecta dichiarava: «Sono felice, molto soddisfatto di come si sia conclusa questa delicatissima vertenza… Abbiamo ideato un modello innovativo per la riconversione dei lavoratori dei call center, un modello a cui altri territori guardano con interesse». Parole che oggi suonano ironiche, se confrontate agli sviluppi successivi.

Di fronte al caos di luglio-agosto 2025, la Regione appare in affanno. Occhiuto – che è anche Commissario straordinario della Sanità calabrese – si trova a dover rispondere di un doppio fallimento organizzativo: da un lato l’azienda pagata per digitalizzare (Konecta) non garantisce procedure né continuità lavorativa; dall’altro, le aziende sanitarie (che lui in teoria controlla come commissario) non forniscono le cartelle da lavorare nei tempi dovuti. È una mancanza di coordinamento grave, che mette in discussione la cabina di regia regionale. I sindacati ricordano che fu proprio Occhiuto a fare da “garante istituzionale del progetto”: ora gli chiedono di battere un colpo, convocando le parti e trovando soluzioni.
Ma il silenzio del governatore, almeno pubblico, è assordante. Occhiuto sembra voler minimizzare la vicenda, forse per evitare di ammettere che quello che presentava come un successo si sta trasformando in un boomerang politico. L’opinione pubblica intanto inizia a notare un pattern: il caso Konecta ricorda da vicino un’altra iniziativa fortemente voluta da Occhiuto, quella dell’ingaggio dei medici cubani per supplire alla carenza di personale negli ospedali calabresi. Anche quella fu annunciata con enfasi propagandistica nel 2022, salutata come soluzione creativa a un problema annoso. E anche quella, col passare dei mesi, ha mostrato tutti i suoi limiti, tanto da essere bollata da alcuni come un “esperimento fallimentare”.

Vale la pena fare un breve parallelo. Nel luglio 2022 la Regione stipula un accordo con la società cubana “Comercializadora de Servicios Médicos Cubanos” per far arrivare quasi 500 medici da Cuba da distribuire negli ospedali calabresi cronicamente sotto organico. Occhiuto presenta l’operazione come un atto rivoluzionario: “Io non mi arrendo: arrivano i medici cubani”, dichiarava, mettendo in evidenza come fosse necessario ricorrere a soluzioni straordinarie davanti all’emergenza sanitaria. Tra fine 2022 e inizio 2023 arrivano i primi contingenti: decine di medici stranieri vengono inseriti negli ospedali regionali. Sulla carta un successo. Ma rapidamente emergono problemi: difficoltà linguistiche, differenze nei protocolli, inserimento non semplice nelle nostre corsie. Soprattutto, con il passare dei mesi, molti di questi medici iniziano a lasciare il servizio pubblico calabrese. Nell’estate 2025 la situazione è preoccupante: “crescente numero di medici cubani che abbandonano il servizio pubblico”, riportano le cronache. Un caso esemplare a Vibo Valentia: un medico cubano assegnato all’ospedale pubblico Jazzolino si è dimesso per farsi assumere in una clinica privata lì vicino, attirato da condizioni di lavoro percepite come migliori. Non è un episodio isolato: c’è chi è andato in ferie a Cuba e non è più tornato, chi ha preferito emigrare in Spagna, chi si è reso irreperibile. Le ragioni? Presto dette. I medici cubani in Calabria si sono scontrati con una sanità pubblica allo sfascio: strutture fatiscenti (l’ospedale di Vibo aspetta da 20 anni di essere rimpiazzato da un nuovo nosocomio), carenze di attrezzature (nel privato “le macchine e l’aria condizionata funzionano, i turni non sono massacranti e le ferie si fanno davvero”, scrive con sarcasmo la stampa) e per giunta contratti penalizzanti.

Grazie a un accordo internazionale, infatti, i camici bianchi dell’Avana ricevono uno stipendio che solo in piccola parte resta a loro: circa 4.700 euro lordi al mese costano alla Regione, ma di questi il medico ne vede appena 1.200 euro, poiché il resto finisce all’agenzia cubana e al governo dell’isola. Insomma, motivazioni forti per cercare di meglio altrove. La vicenda dei medici cubani si sta così sgonfiando: invece di risolvere la carenza di personale, rischia di lasciare gli ospedali punto e daccapo, dopo aver speso decine di milioni (il costo totale del programma si aggira sui 28 milioni di euro per tre anni). Il parallelismo con il progetto Konecta è evidente. Anche lì abbiamo un presidente-regione che “inventa” una soluzione non convenzionale (riconvertire operatori di call center in digitalizzatori) e la propaganda come “modello”, ma che poi non cura l’implementazione pratica, lasciando che si traduca in una sequela di disfunzioni. Nel caso dei medici cubani, Occhiuto ha portato personale dall’estero senza però risolvere i problemi organizzativi degli ospedali calabresi, coi risultati descritti. Nel caso Konecta, ha trovato fondi per assumere 1000 persone, ma senza predisporre una struttura di progetto adeguata: la regione avrebbe dovuto garantire che le ASP fossero pronte a fornire regolarmente i documenti da digitalizzare e vigilare che l’azienda appaltatrice rispettasse gli standard organizzativi e contrattuali pattuiti. Ciò non è avvenuto. La realtà è che l’intero impianto pensato dalla Regione sta vacillando. E con esso vacilla la credibilità della giunta Occhiuto nel mantenere le promesse fatte ai lavoratori.

VOCI E VOLTI DEI LAVORATORI: DALLA SPERANZA ALL’AMAREZZA
Per comprendere a fondo questa vicenda, è fondamentale ascoltare le testimonianze dei diretti interessati – i lavoratori ex Abramo ora in organico Konecta – che in pochi mesi hanno vissuto un’altalena di emozioni: dall’ansia per il posto a rischio, alla gioia per il salvataggio, fino alla nuova angoscia per un futuro tornato incerto.
Molti di loro erano dipendenti storici di Abramo Customer Care, un’azienda che per decenni era stata fiore all’occhiello dell’imprenditoria crotonese. “Siamo un gruppo di calabresi che con lavoro e dedizione, per 27 anni, ha determinato la crescita internazionale di Abramo”, scrivono gli ex impiegati nel loro comunicato-denuncia, ricordando con orgoglio il passato. Quei lavoratori, grazie ad Abramo, avevano garantito “enormi ricavi per il territorio in termini sia economici che di sviluppo professionale e culturale”. Parole che sottolineano come il call center, pur spesso considerato impiego di ripiego, avesse creato negli anni competenze e stabilità per centinaia di famiglie in un contesto altrimenti povero di occasioni.

Poi è arrivata la crisi dell’azienda, con il rischio concreto di perdere tutto da un giorno all’altro. “Felice di aver risolto la vertenza”, dice oggi ironicamente un dipendente parafrasando Occhiuto. In effetti, a dicembre 2024 c’è stata un’enorme sollievo collettivo: invece del licenziamento, la prospettiva di un nuovo lavoro (e “natale di serenità”). Molti credevano davvero nel progetto: l’idea di passare da rispondere al telefono a digitalizzare cartelle cliniche poteva far paura, ma era anche vista come un’occasione per crescere professionalmente e fare qualcosa di utile per la comunità. “Ci hanno detto che avremmo innovato la sanità calabrese, ne eravamo orgogliosi”, racconta una lavoratrice durante il sit-in di agosto.

Ben presto, però, l’entusiasmo ha lasciato spazio alla delusione. La prima doccia fredda sono stati i livelli abbassati in busta paga: “Mi sono ritrovato con due livelli in meno, dopo 15 anni di lavoro”, riferisce un ex team leader di Abramo ora in Konecta, “come se tutti gli avanzamenti di carriera fossero spariti”. Un altro impiegato mostra la sua busta paga ridotta: “Prendo circa 150 euro in meno al mese di prima”, dice, “con l’inflazione che c’è, è pesante per la mia famiglia”. Molti sottolineano il senso di umiliazione provato: “Ci hanno umiliati, ci hanno fatti sentire dipendenti di serie B”, afferma un’operatrice, “come se il pubblico [committente] avesse accettato di pagarci meno pur di far partire sto progetto”. In effetti, il fatto che proprio i lavoratori della commessa pubblica abbiano ricevuto trattamenti peggiori rispetto ai colleghi sulla commessa privata (Tim/Fibercop) ha generato rabbia: “Ci hanno trattato come figli di un Dio minore, eppure i soldi per pagarci venivano dalla Regione” sbotta un dipendente.

Sul fronte organizzazione del lavoro, i racconti dipingono una situazione a tratti surreale. “Stavamo ore senza far nulla, con i PC accesi a fissare lo schermo”, ricorda una lavoratrice storica, “ci dicevano di tenere il turno anche se non c’era niente da scansionare”. La temperatura in sede era infernale: “d’estate l’aria condizionata non funziona bene, un caldo pazzesco, c’era gente che si sentiva male”. Altre voci confermano gli episodi di malore: “due colleghe sono svenute, un altro ha avuto un attacco di panico, è venuta l’ambulanza”. “Ci avevano promesso un lavoro dignitoso, invece sembrava di stare all’inferno”, chiosa amaramente una lavoratrice.

L’assenza di regole chiare ha disorientato molti. Un neo-assunto racconta di aver ricevuto istruzioni “a voce” su come scannerizzare: “Il primo giorno mi hanno detto: fate così e così, ma non c’era un manuale, niente di scritto. Ognuno faceva un po’ a modo suo”. Alcuni anziani ex Abramo con competenze informatiche si sono improvvisati tutor per aiutare i colleghi meno avvezzi alle tecnologie, “ma senza linee guida era un casino”. Un dipendente confessa la preoccupazione per possibili errori: “Avevamo paura di sbagliare a digitalizzare documenti sanitari importanti, senza procedure precise era tutto affidato al buonsenso”. C’era anche chi si domandava delle responsabilità legali: “Se per caso si smarriva una cartella o si danneggiava un file, di chi era la colpa? Noi firmavamo cose delicate, ma nessuno ci ha formato davvero”. Queste paure trovano eco nelle parole di Confial sul “rischio penale” per i lavoratori dovuto al caos operativo.

Infine è arrivato lo stop forzato di luglio-agosto, forse l’aspetto più deprimente. “Ti svegli la mattina, prepari i bambini per portarli al campo scuola e andare al lavoro, e scopri con un messaggio WhatsApp che non devi presentarti perché non c’è niente da fare”, racconta incredulo un padre di famiglia. Molti all’inizio hanno pensato a una breve interruzione, magari dovuta a qualche problema tecnico. “Ci dicevano: state a casa oggi, recupererete le ore più avanti”. Poi lo stop si è prolungato. “Quando hanno parlato di ferie fino al 24 agosto non ci volevo credere”, afferma un’altra lavoratrice, “ferie?! Ma se ero stata assunta da pochi mesi e non avevo maturato nulla… ho dovuto usare ferie non mie, andare in negativo”. Konecta ha promesso che non ci sarebbero stati addebiti per le ferie forzate, ma l’ansia resta: “E se a dicembre mi licenziano e mi trattengono i giorni?”. L’incertezza sul futuro è totale. “Non sappiamo se a settembre torneremo a lavorare, non sappiamo nulla”, ripetono in molti durante le assemblee, “siamo pagati per non lavorare, assurdo”. Alcuni quasi si vergognano: “Prendere uno stipendio stando a casa senza far niente è mortificante, oltre che uno spreco”, dice un impiegato, “noi vogliamo lavorare, non essere mantenuti così”.

Significativo è l’episodio (confermato dai sindacati) degli incentivi all’esodo: “Hanno iniziato a girare voci che l’azienda ti dava dei soldi se te ne andavi”, racconta una dipendente cinquantenne, “mi è venuto da piangere: ma come, prima ci salvano e poi ci pagano per farci fuori?”. Si parla di alcune migliaia di euro offerte come buonuscita volontaria. “So di colleghi che hanno accettato, magari perché vicini alla pensione o con la possibilità di un altro impiego”, dice un altro lavoratore, “ma per la maggior parte di noi non è un’opzione: qui a Crotone alternative non ce ne sono”. E qui arriviamo al cuore umano della vicenda: la condizione dei lavoratori di Crotone e dintorni, che dipendono da questo reddito e vedono l’orizzonte oscurarsi di nuovo.

CROTONE TRA CRISI E SPERANZE INFRANTE: L’IMPATTO ECONOMICO E SOCIALE
La provincia di Crotone è, purtroppo, abituata a primeggiare nelle statistiche negative: disoccupazione alle stelle, emigrazione giovanile di massa, investimenti produttivi quasi inesistenti. In questo contesto, il settore dei call center aveva rappresentato negli ultimi decenni una delle poche ancore occupazionali. Abramo Customer Care, fondata proprio a Crotone, arrivò a impiegare migliaia di persone in Calabria, fornendo servizi a grandi clienti nazionali. La sua crisi ha significato un colpo durissimo per l’economia locale: 1000 famiglie sull’orlo di perdere lo stipendio significano un impoverimento diretto e indiretto (meno consumi, meno indotto) in un territorio già fragile.

L’operazione Konecta era stata accolta come manna dal cielo: non solo si salvavano quei posti di lavoro, ma si prospettava una diversificazione economica. Da centralino a hub di digitalizzazione documentale: un’attività più qualificante, forse apripista per altre commesse nella digital transformation della PA. Si parlava di “modello da esportare”: se l’idea avesse funzionato, avrebbe potuto attrarre ulteriori progetti simili in Calabria, trasformando una debolezza (l’eccesso di manodopera nei call center in crisi) in un punto di forza (un polo di servizi digitali per la pubblica amministrazione). Le aspettative erano quindi alte, non solo per i lavoratori coinvolti ma per l’intera comunità locale. Si confidava che Crotone potesse diventare un esempio virtuoso di riconversione e innovazione nel Sud.

Oggi, a circa otto mesi dal via, quelle speranze appaiono in gran parte disattese. La realtà è che Crotone rischia invece di ritrovarsi con un pugno di mosche. Se il progetto Konecta dovesse fallire – e le avvisaglie ci sono tutte, visto lo stallo attuale – i 1000 lavoratori salvati a fine 2024 potrebbero tornare nell’incubo della disoccupazione nel 2025. Uno scenario drammatico: significherebbe un ulteriore impoverimento per il territorio, la perdita di competenze che difficilmente troverebbero altra collocazione in zona. Molti temono un effetto domino: la fine del progetto comporterebbe meno reddito circolante, quindi ancora meno lavoro per i negozi, i servizi, l’artigianato locale. “Ogni stipendio perso qui da noi significa intere famiglie in difficoltà”, spiega un sindacalista, “quasi nessuno di questi lavoratori ha alternative: se chiude Konecta, o si trasferiscono al Nord o restano disoccupati”. Emigrazione o assistenza, l’eterno dilemma del Sud, si ripropone.

Va poi considerato lo spreco di risorse pubbliche in caso di fallimento. I 20 milioni investiti dalla Regione e dallo Stato dovevano produrre un duplice risultato: modernizzare la gestione di milioni di cartelle cliniche e garantire occupazione stabile. Se non si raggiunge né l’uno né l’altro obiettivo, quei soldi saranno stati buttati al vento. “La Calabria non può permettersi di perdere questa occasione”, avevano ammonito i sindacati confederali. Se succede, sarà l’ennesima “occasione mancata per il nostro territorio”, come scrive Confial. In termini pratici: le cartelle sanitarie resteranno negli archivi polverosi, la digitalizzazione subirà ritardi (con ricadute negative anche sui servizi ai cittadini), e 1000 persone dovranno magari ricorrere a sussidi o emigrare, invece di contribuire allo sviluppo locale. Un vero e proprio fallimento socio-economico.

Allargando lo sguardo, la vicenda Konecta si inserisce in un contesto di politiche del lavoro precarie in Calabria. Spesso si assiste a operazioni emergenziali, calate dall’alto, che tamponano una crisi nell’immediato ma non costruiscono nulla di solido nel lungo periodo. Crotone conosce bene questo copione: basti pensare alla fabbrica Pertusola e alle infinite promesse di rilancio del porto mai concretizzate. Il rischio concreto è che il progetto Konecta si aggiunga alla lista di promesse tradite, lasciando dietro di sé ancora più sfiducia verso le istituzioni.

Una vicenda ancora aperta (e una lezione da imparare)

Quella di Konecta a Crotone è una storia che, al momento, non ha un epilogo definito. Nelle prossime settimane (e mesi) sarà cruciale capire se la Regione Calabria e il Governo vorranno e sapranno rimettere in carreggiata questo progetto prima che deragli definitivamente. I sindacati hanno chiesto con insistenza la convocazione di un tavolo di crisi con tutti gli attori: Regione, azienda Konecta, sindacati, e i vertici delle aziende sanitarie coinvolte. Solo mettendo tutti intorno a un tavolo sarà forse possibile sbloccare la fornitura delle famose cartelle cliniche da digitalizzare e ridefinire regole e organizzazione del lavoro. Roberto Occhiuto, dal canto suo, si gioca una fetta importante della sua reputazione amministrativa: dopo l’euforia iniziale, ora tocca a lui, in qualità di committente e garante politico, assicurare la prosecuzione sensata di quanto avviato. Dovrà pretendere efficienza sia dall’azienda appaltatrice (Konecta) sia dalla macchina burocratica regionale che finora ha rallentato il progetto.

Sul fronte aziendale, bisognerà vedere se Konecta intende onorare gli impegni presi o se, incassati i finanziamenti, preferirà fare marcia indietro. Il fatto che i lavoratori siano stati assunti da una S.r.l. (Konecta R) e non dalla società principale Konecta S.p.A. ha suscitato timori: qualcuno ha ipotizzato che, una volta completata (o interrotta) la commessa pubblica, quella S.r.l. possa essere sciolta più facilmente, lasciando i lavoratori senza tutele. Si tratta di congetture, ma che alimentano l’incertezza. Dal canto loro i sindacati – Confial in testa, ma ormai anche CGIL, CISL e UIL – si preparano a ulteriori azioni di mobilitazione se non arriveranno risposte rapide. Non si esclude nulla, perfino la via giudiziaria: il richiamo all’ipotesi di un esposto in Procura (per verificare utilizzo dei fondi pubblici e rispetto degli accordi) è già risuonato.

Al di là dell’esito specifico, questa vicenda offre una lezione più ampia sulla gestione delle crisi occupazionali con fondi pubblici. L’idea di riconvertire professionalità in nuovi settori è sacrosanta e anzi necessaria in un mondo del lavoro in evoluzione. Ma non basta stanziare milioni e firmare protocolli solenni: occorre pianificare nel dettaglio l’implementazione, garantire un monitoraggio costante e coinvolgere davvero i lavoratori nelle scelte. Nel caso Konecta, sembra siano mancati controlli e governance dall’alto: la Regione ha finanziato ma poi, di fatto, lasciato fare all’azienda, che a sua volta ha agito con evidente superficialità (basti pensare alla sede inadeguata e alla mancanza di procedure scritte). Inoltre, la comunicazione interna con i lavoratori è stata carente: questi ultimi spesso hanno saputo dei cambiamenti last-minute via WhatsApp, senza un confronto trasparente. Tutto ciò ha minato la fiducia e la tenuta del progetto stesso.

In conclusione, il caso Konecta a Crotone somiglia a una piccola grande metafora delle sfide del Sud: grandi speranze, grandi annunci, ma anche vecchi problemi che riemergono – burocrazia lenta, improvvisazione, scarso rispetto per il lavoro. Non si innovano i servizi precarizzando il lavoro, se davvero si vuole trasformare la Calabria con progetti innovativi, non si può prescindere dal garantire dignità e stabilità a chi quei progetti deve realizzarli. Altrimenti, come stiamo vedendo, il rischio è di ritrovarsi con un nulla di fatto: né innovazione né occupazione, solo soldi pubblici evaporati e l’ennesima ferita sociale.

La parabola di Konecta rischia di finire nei manuali come esempio di “come non gestire una crisi industriale”. E per i mille lavoratori coinvolti sarà l’ennesimo viaggio sulle montagne russe della precarietà, da rischio licenziamento a “salvataggio”, e di nuovo verso l’incubo disoccupazione. Una montagna russa di cui avrebbero fatto tutti volentieri a meno.
Intanto il governatore-commissario dimissionario che si gioca la campagna elettorale sul filo del rasoio rischia di ritrovarsi la sanità come il più grande boomerang elettorale, potrebbe essere proprio questo il tallone di achille della sua mancata rielezione se dovesse emergere un quadro più chiaro della relatà della sanità calabrese, non sono solo i progetti Konecta e la crisi dei medici cubani il problema vero si nasconde nella sanità privata.

Il 5 agosto il Quotidiano della Calabria titolava: “Inchiesta sulla Regione, nelle carte spuntano gli “amici di Crotone”, Le intercettazioni che inguaiano i vertici della clinica Romolo Hospital di Rocca di Neto”. Questo è solo l’ultimo degli altarini che giorno per giorno stanno emergendo.
Insomma se non sarà per la sanità pubblica sarà il comparto privato a pesare come un macigno agli occhi dell’opinione pubblica sulla campagna elettorale del presidente uscente.