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Cinque morti in quattro mesi dopo l’uso del taser: l’Italia senza regole di fronte a un’arma letale

Il ministro Matteo Piantedosi ha definito l’arma «uno strumento di dissuasione più sicuro dell’arma da fuoco». Ma il vademecum operativo redatto dal Viminale nel 2018 non contiene limiti vincolanti su durata, frequenza o zone di mira. In più le linee guida non sono state mai aggiornate

di Giulio Cavalli

Fonte: Domani

Lunedì 6 ottobre, alle otto e mezza del mattino, i carabinieri sono intervenuti in via Nicola Fornelli, nel quartiere Chiaia di Napoli, per una lite domestica. L’uomo coinvolto, Antony Ehogonoh Ihaza, 35 anni, nato a Napoli da genitori nigeriani, era in stato di forte agitazione, secondo i primi verbali «nudo e in preda a crisi psicomotoria».

I militari avrebbero tentato il dialogo, poi avrebbero usato lo spray al peperoncino. Non riuscendo a immobilizzarlo, uno degli agenti ha impugnato il taser. Pochi istanti dopo la scarica, l’uomo è stato caricato su un’ambulanza del 118, ma è morto durante il trasporto al Policlinico. La procura di Napoli ha aperto un fascicolo per accertare le cause del decesso, ha disposto l’autopsia e sequestrato la salma. L’indagine è affidata a un reparto diverso da quello intervenuto, per evitare conflitti d’interesse.

È il quinto decesso in quattro mesi seguito all’uso dell’arma a impulsi elettrici in Italia. Prima di lui: Riccardo Zappone a Pescara, Gianpaolo Demartis a Olbia, Elton Bani a Genova e Claudio Citro a Reggio Emilia. Tutti uomini, tutti morti dopo essere stati colpiti dal dispositivo durante interventi per “stati di agitazione” o “comportamenti violenti”. In alcuni casi le autopsie non sono ancora concluse, in altri i referti parlano di arresto cardiaco «compatibile con stress acuto».

Il ministero dell’Interno insiste sul fatto che «in nessun caso è stato provato un nesso diretto» tra taser e decessi. Il ministro Matteo Piantedosi ha definito l’arma «uno strumento di dissuasione più sicuro dell’arma da fuoco», giudicando “ideologiche” le polemiche. Ma le parole del Viminale si scontrano con i dati: cinque morti in meno di sei mesi in un Paese dove il taser è ancora in fase di adozione limitata.

A Genova, dopo la morte di Bani, l’amministrazione comunale ha sospeso la sperimentazione, riconoscendo che «il quadro normativo è lacunoso». In altre città, invece, il dispositivo resta in dotazione quotidiana. Nessuna inchiesta indipendente nazionale è stata aperta per verificare modalità d’uso, formazione degli agenti e parametri di sicurezza.

Il vademecum operativo redatto dal Viminale nel 2018 prevede cautele — distanza di tre metri, uso come deterrente prima della scarica, assistenza sanitaria obbligatoria dopo ogni impiego — ma non contiene limiti vincolanti su durata, frequenza o zone di mira. Le linee guida non sono state mai aggiornate, né trasformate in norma cogente.

Nel confronto internazionale, la statistica italiana appare anomala. Negli Stati Uniti, dove il taser è in dotazione da oltre vent’anni, oltre 1.000 persone sono morte dal 2000 in episodi collegati al suo uso; in 153 casi la scarica elettrica è stata riconosciuta come causa o concausa del decesso, secondo i dati del Police Executive Research Forum. Nel Regno Unito, con protocolli d’impiego e tracciamento rigidamente regolati, si contano 18 morti in vent’anni su un numero d’interventi immensamente più alto.

L’Italia, con cinque vittime in pochi mesi e un impiego ancora sperimentale, registra un tasso di incidenza superiore alla media internazionale. La mancanza di un registro nazionale che documenti l’uso del taser e i relativi esiti sanitari impedisce ogni analisi statistica indipendente. Non esistono dati pubblici su quante volte sia stato attivato il dispositivo, per quanto tempo, o contro chi.

Le evidenze scientifiche non lasciano spazio all’ottimismo. Lo studio di Douglas P. Zipes, pubblicato sulla rivista Circulation dell’American Heart Association, ha dimostrato che le scariche ad alta tensione possono indurre fibrillazioni ventricolari letali, soprattutto in persone con vulnerabilità cardiaca, sotto stress o sotto l’effetto di sostanze stimolanti.

Lo stesso produttore, la statunitense Axon Enterprise, avverte nei manuali tecnici che l’arma deve essere usata «solo quando strettamente necessario» e che bisogna evitare colpi ripetuti o prolungati, soprattutto sul torace, mantenendo «una distanza di sicurezza». Raccomandazioni spesso ignorate.

Nel 2025, il Banco nazionale di prova di Gardone Val Trompia ha bocciato una fornitura di taser Axon per «mancanza dei requisiti tecnico-funzionali minimi» previsti dalla gara ministeriale. Nonostante ciò, l’arma continua a essere utilizzata dalle forze dell’ordine in decine di città italiane.

L’Italia non dispone di norme pubbliche e vincolanti che definiscano limiti temporali alla scarica elettrica o che ne vietino l’uso su minori, donne incinte o persone in evidente alterazione psicofisica. Non esiste un registro obbligatorio degli impieghi né un protocollo nazionale di de-escalation preventiva.

Le linee guida del 2018 prescrivono genericamente la “valutazione del contesto” ma non impongono procedure di contenimento non violento. Né è previsto un monitoraggio medico sistematico sugli effetti cardiaci o neurologici nei soggetti colpiti.

A livello locale, solo alcune amministrazioni — come Genova o Torino — hanno chiesto di sospendere la sperimentazione in attesa dei risultati delle autopsie. Ma senza un coordinamento nazionale, ogni comando decide in autonomia.

Le principali associazioni per i diritti civili (tra cui Antigone e Amnesty International Italia) chiedono una moratoria sull’uso del taser finché non verranno stabiliti protocolli trasparenti e verificabili. Amnesty ricorda che, a livello globale, il dispositivo è «responsabile di centinaia di morti e di abusi sistematici, spesso contro persone con disturbi mentali o in condizioni di vulnerabilità».

Il governo, finora, si limita a difendere il dispositivo come «strumento indispensabile». Ma di fronte a cinque morti in quattro mesi, la giustificazione della “sicurezza relativa” non regge più. Il taser, introdotto in Italia come misura di modernizzazione e deterrenza, sta producendo un effetto opposto: un aumento dei rischi senza un quadro di controllo adeguato.

La morte di Antony Ihaza non è un caso isolato: è il sintomo di una sperimentazione trasformata in routine, senza norme, senza verifiche, senza responsabilità. E finché non esisteranno regole certe, ogni nuova scarica rischia di essere un’altra autopsia annunciata.