«Comunisti!», quell’eterno insulto che si aggira nella politica italiana
di Alice Valeria Oliveri
Fonte: Domani
«I comunisti oggi sono quelli che hanno metabolizzato la rottura irreversibile e definitiva con la sinistra», diceva Paolo Virno, filosofo scomparso di recente, in un lungo e articolato intervento alla Conferenza di Roma sul Comunismo C17, otto anni fa. In quel periodo, tra le espressioni feticcio usate dalle varie sfumature di destra italiana, prevalevano termini come “buonisti”, “radical chic”, “pidioti”.
La parola “comunisti” restava più discretamente nell’ombra, mai sparita ma meno gettonata, lontana dagli sguardi indiscreti dell’attuale partito di maggioranza relativa, per usare un’espressione cara al presidente Sergio Mattarella.
Resteranno a lungo impressi nella memoria collettiva i volti dell’album di famiglia meloniano che rimbalzano cum gaudio sul palco del comizio napoletano al suon di «chi non salta comunista è», immagine tanto “iconica” da essere riprodotta poi in forma di cartonato, con nuvoletta e didascalia, a disposizione degli avventori di Atreju, dove il sottosegretario al ministero della Giustizia Andrea Delmastro ha girato un video in cui lancia un appello salterino alla sinistra: «Lasciateci ridere».
Così come difficilmente ci libereremo dall’urlo ancestrale della ministra Anna Maria Bernini che, sempre al raduno natalizio dei giovani della destra italiana dove intervengono molti adulti, risponde agli studenti di Medicina che la contestano con l’anatema berlusconiano.
«Poveri comunisti», dice agli universitari in cerca di un confronto, il dialogo come priorità. Gli interrogativi che suscitano questi episodi, e in particolare lo spettacolo danzereccio coreografico del governo, sono davvero troppi per essere tutti qui raccolti, a partire da quale legge della fisica entri in azione sul corpo festante del ministro Tajani.
Pertanto, onde evitare inutili divagazioni, focalizziamoci su uno solo dei quesiti destati da questo show buontempone che si intreccia con la tendenza sempre più frequente a usare la parola asso pigliatutto della politica fatta di slogan, caroselli e algoritmo.
«Qualcuno era comunista»
Chi sono “i comunisti” a cui si indirizza lo scherno? Sono quelli di cui parlava Virno? Sono i tesserati del Pci, gli operaisti, i marxisti-leninisti, sono gli eredi di Enrico Berlinguer, Pietro Ingrao, Giorgio Amendola? Sono forse i fondatori de il manifesto, sono i trotzkisti, gli internazionalisti, i togliattiani, gli esponenti della New Left, i maoisti, o i «comunisti col Rolex» di J-Ax e Fedez?
«Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia», diceva Gaber, tutti gli altri invece sono comunisti perché stanno all’opposizione, pare essere la regola del presente. In barba alle distinzioni storiche, geografiche e filosofiche che uno dei termini politicamente più complessi degli ultimi due secoli porta con sé nel suo enorme bagaglio semantico, l’importante è capirsi: i comunisti sono quelli «più ricchi e laureati», diceva il compagno di classe confuso della protagonista di Caterina va in città, e in effetti anche l’uso contemporaneo della parola sembra più adatto a un’aula di terza media che a giornali e talk show, sempreverde dell’insulto facile, anzi, semprerosso.
L’origine dell’accezione contemporanea, chiaramente, è d’ispirazione forzista, come sottolinea orgogliosa Bernini nel duello con le matricole, sia nella sua declinazione da litote in forma di coro ultrà, intonato con commozione anche durante i funerali del Presidente a mo’ di elegia di fronte al Duomo di Milano, sia nella famosa frase-manifesto del Silvio Berlusconi-pensiero: «Siete ancora, come ieri, dei poveri comunisti».
Poveri comunisti, “Il coro che fa impazzire la sinistra”, titola Libero; al centro della pagina, una vignetta con Elly Schlein, Achille Occhetto e Massimo D’Alema vestiti da armata rossa, falce, martello e colbacco in dotazione. Silvia Sardone, vicesegretaria della Lega, è un’affezionata del binomio povertà e bolscevismo – ma poi mettiamoci d’accordo, non erano ricchi quelli di sinistra? – Gennaro Sangiuliano, ospite di Corrado Formigli, ha sfoggiato un braccialetto con intarsiata la citazione silviesca, la stessa che usa da Paolo Del Debbio l’imprenditore Gio Urso, esperto del «fatturage», contro Luca Boccoli di Avs, mentre Francesco Giubilei cita un altro celebre detto del Cavaliere contro chi si scandalizza per quei due saltelli, «non sapete nemmeno scherzare».
Maccartismo farsesco
Ma a contribuire a questa ondata di rinato maccartismo in versione farsesca, a oltre trent’anni dalla svolta della Bolognina e da quella del Mauerfall, dove va in scena la parodia postmoderna di una Guerra fredda combattuta a suon di meme – sul profilo ufficiale di FdI vengono condivise immagini create con l’intelligenza artificiale in cui i vari leader dell’opposizione vestono alla sovietica – non è solo la nostalgia per l’Italia azzurra di Berlusconi.
Ho sposato un comunista, scriveva Philip Roth nel 1998, ho votato un comunista, scoprono gli abitanti di New York dopo la vittoria di Zohran Mamdani. O almeno, secondo la versione di Donald Trump, che già da tempo si unisce alla psicosi collettiva che vede comunisti, o “commies”, come dicono negli Usa, ovunque, soprattutto in assenza di comunismo. «A socialist-slash-communist… He’s going to tax you people at 90 percent; he’s going to take everything!» diceva già nell’ormai preistorico 2015 a proposito di Bernie Sanders.
E come dimostra il caso Kirk, passato in pochi secondi da personaggio totalmente sconosciuto alla destra italiana a grande eroe della galassia salviniana (anche ad Atreju si trova un suo santino), dalle nostre parti c’è chi impara molto in fretta dal trumpismo paranoide che riesce a dare dei comunisti persino ai dem.
È chiaro che avere un nemico con un nome e un’iconografia già rodati da anni fa comodo, a maggior ragione se lo spettro in questione non solo si aggira per l’Europa da tempo ma incarna anche una serie di caratteristiche utili a una strumentalizzazione che va dalla patrimoniale in su, fino alla sfida con la gravità sul palco di un comizio. È però altrettanto frustrante apprendere che sia una parte della nostra classe dirigente a servirsi con tanta disinvolta facilità di questo termine a dir poco complesso e adibito a luogo comune, svuotato dai suoi molteplici significati e ridotto a un ritornello a metà tra il coro da stadio e il canto da osteria intonato con mano a cucchiara e fiasco di vino.
Se non per rispetto nei confronti di una tradizione politica che vanta al suo interno pensatori come Antonio Gramsci e partigiani che hanno liberato l’Italia da una dittatura – eppure, al ministero del Made in Italy dovrebbero avere a cuore le nostre eccellenze, che non sono solo prosciutti e tagliatelle con cui tirarsela a cena col resto del mondo – quantomeno per non fare la figura di quelli un po’ fifoni che credono ai fantasmi.









