L’anno in cui scoprimmo il tennis. La racchetta ha superato il pallone
di Piero Valesio
Fonte: Domani
L’Italia è una repubblica democratica fondata sul tennis. I padri della Costituzione avrebbero visto una tale deformazione dell’articolo che apre quella che ancora oggi è la Carta più bella del pianeta come un orrore, un atto irrispettoso. Nel migliore dei casi, una manifestazione di bieca scemenza. Eppure, al termine dell’Anno Santo (anche per il tennis) 2025, non ci si può scandalizzare più di tanto: nella sempre più sensibile latitanza di un terreno comune, non ci resta che la racchetta. Uno sport di cui una moltitudine di persone si è scoperta appassionata, i cui protagonisti assurgono al ruolo di esempi per la gioventù al fine di trasformarla in meglio gioventù, la cui struttura organizzativa è diventata archetipo di funzionalità talmente funzionale da ambire a occupare anche gli organismi internazionali, o almeno da dettare loro l’agenda.
Il che è ancora più clamoroso se si pensa che nemmeno tanti anni fa il tennis era considerato la pecora nera dello sport italiano, quella che viveva di ricordi lontani e
pure ammantati da una certa aura di estemporaneità mentre altre discipline dominanti (il calcio su tutti, quello stesso che oggi casca a pezzi) erano diventate addirittura il linguaggio
della politica.
Oggi dobbiamo prendere atto che due settantenni come Panatta & Bertolucci conquistano la scena nazionalpopolare di Ballando con le stelle assai più dei partecipanti e dei giurati. Ma come è potuto succedere? E, soprattutto, è cosa buona e giusta?
Effetto Sinner
La risposta più semplice a entrambi i quesiti ha un nome e un cognome: Jannik Sinner. Il suo avvento prorompente funziona da motore mobilissimo di tutto il fenomeno. Chissà quanto avrebbe pagato pure di tasca sua Boris Eltsin, nel più nitido esempio di tennis che si
trasforma in un fattore di propaganda nazionalistica o qualcosa del genere, per potere disporre in Russia di un numero 1 al mondo che si facesse testimonial dei cambiamenti in atto nella società post-sovietica. Ma la sorte gli negò questo privilegio. Sinner è una storia perfetta per assurgere a qualcosa di molto di più che un campione di tennis.
Specie alla fine di una stagione dove ha vinto due Slam e uno dei due è stato Wimbledon, dove nessun essere vivente di passaporto italiano (donna o uomo) era mai riuscito a sollevare il trofeo. Ci era andato vicinissimo Matteo Berrettini, vero anticipatore di ciò che è venuto dopo, un Giovanni Battista («A colui che verrà dopo di me non sono degno nemmeno di sciogliere i lacci dei sandali») che “battezzò” Sinner alle Finals del 2021 con un involontario sacrificio cristologico: s’infortunò e gli permise di prendere il suo posto nel tabellone. E i due successi major, più quello nelle Finals, secondo consecutivo, sono arrivati
in un anno in cui Sinner ha dovuto accettare sia una squalifica di tre mesi seguente al celebre caso Clostebol sia il sospetto diffuso di essere stato trattato in guanti bianchissimi (al contrario di altri) dopo la rilevazione della positività.
Un’aura violacea che Novak Djokovic ha puntualmente codificato, chiamandola «il sospetto che gli farà compagnia per tutta la vita». Ma molti italiani, si sa, amano identificarsi con l’uomo forte, se vincente meglio. Sono pronti a perdonargli anche cadute di stile clamorose come il rifiuto (dopo la vittoria a Melbourne) di salire al Quirinale per incontrare Sergio Mattarella o la straprevista rinuncia alle Finals bolognesi di Davis.
Dentro la crisi del calcio
Il perché l’Italia sia diventata una repubblica tennistica è fornito anche dal crollo verticale di quel linguaggio calcio che ha dominato il nostro paese da quando ha scalzato il ciclismo orfano di Bartali e Coppi dal primo posto delle passioni sportive. E non si tratta solo di risultati. Dalle nostre parti si accetta assai più volentieri, di questi tempi, di strapagare biglietti per l’Inalpi Arena di Torino, per gli Internazionali d’Italia o per Montecarlo piuttosto che versare la quota mensile a Dazn per seguire le partite di campionato. Se il primo è visto come un esborso motivato e giustificato dalla qualità dello spettacolo, dalla
presenza di Sinner e degli altri italiani, un giusto riconoscimento a ragazze e ragazzi che poco concedono allo show business (a parte la supercar di Sinner, ma che volete, nessuno è perfetto), l’altro è avvertito come un balzello manzoniano, un qualcosa di simile a un’odiosa tangente che sfrutta una passione atavica per rifilare uno spettacolo mediocre, tecnicamente insufficiente, messo in scena da attori spesso improponibili.
Se il linguaggio del calcio è oggi imbastardito da contagi di varia natura, quello tennistico si propone come alternativo, capace di veicolare il senso profondo di risultati che arrivano perché supportati da lavoro e rispetto altrui. E qui s’innesta il discorso di quello che qualcuno chiama “movimento”: vediamo perché.
Come nasce un movimento
Sinner come gli studenti di Palazzo Campana a Torino nel ‘68, quando occupando Giurisprudenza diedero il via al “Movimento”? Qualche analogia c’è. E dovendone trovare un passaggio-simbolo basta andare di poche settimane indietro con la memoria. La vittoria dell’Italia della Davis a Bologna (seppure facilitata dalla cronica assenza di top player avversari) è avvenuta senza Sinner e Lorenzo Musetti, con in campo Flavio Cobolli e Berrettini. Gli altri. Che anche in assenza del leader hanno fatto quanto loro richiesto. Questo piace tantissimo. Piacciono da morire Jasmine Paolini che vince a Roma e il suo doppio stravincente con Sara Errani, una che ha trasformato una squalifica per doping in un nuovo inizio; piace il doppio Bolelli/Vavassori che vince la Davis senza giocarla mai, ma esulta come se avesse battuto Vilas/Clerc.
Strapiace (soprattutto ai boomer) Musetti che non vince un torneo da tre anni, ma è l’unico a rappresentare un legame palese con i grandi tennartisti del passato.
Piacciono i romanissimi Cobolli e Berrettini perché rappresentanti del senso di famiglia: giocavano insieme già da piccini. E poi la mamma, quella non manca mai: Sieglinde Sinner che a Wimbledon incarna tutte le ansie delle madri che aspettano a casa i figli che
devono sostenere l’esame di maturità o il primo colloquio di lavoro. La mamma tennistic
italiana di oggi è l’erede di quella di sempre, quella di Beniamino Gigli o quella yiddish mum che, incombendo dalle nuvole di Manhattan, ricordava al figlio Woody Allen di mettersi il pullover. Il Movimento è arrivato in massa dietro a Sinner che così ha sconfitto definitivamente il rischio di apparire estemporaneo. Ma invece: un padre esiste, di questo movimento?
Capitalizzare la fortuna
Il fatto che il tennis sia diventato un fattore onnipresente della vita quotidiana non significa che metta d’accordo tutti. La polarizzazione social colpisce ogni giorno: Sinner italiano o italiano per finta, culturalmente di destra perché non è andato da Mattarella o di sinistra perché non c’è un momento in cui non si mostri come uomo del popolo. Lo scomparso Nicola Pietrangeli era il padre nobile del movimento o un rosicone che non accettava che altri non riconoscessero la sua inscalfibile supremazia storica.
Gli organismi federali (che comunque non perdono occasione di mettere il cappello su ogni vittoria) sono meritevoli di aver finanziato le carriere di giocatrici e giocatori (un format molto diverso da quello statalista dei centri federali) oppure hanno il solo merito di aver smesso di fare danni, lasciando che i talenti fossero seguiti da coach e scuole di alto livello limitandosi ad appoggi logistici. Un padre vero, unico, indiscutibile del fenomeno tennis forse non c’è. C’è chi ha saputo e sa organizzare, capitalizzare e potenziare le benevolenze del fato. E, sia chiaro, non è poco.









