Anche Stefania Covello parla. Anzi scrive. Sempre che a stilare l’intervento sia stata lei.
Ma facciamo finta di crederci e vediamo cosa ha scritto.
Stefania interviene sul caso Melito. E lo fa con il piglio di chi pensa di passare per intellettuale usando qualche parolone. Da qui i dubbi che possa essere stata lei a scriverlo.
Sciorina tutto il suo sapere in questo scritto, la Stefania, come una lavannara dopo che ha finito di fare il bucato. Si muove con disinvoltura tra la sociologia e l’antropologia, passando da una disciplina all’altra, come fa l’ antechino nella stagione degli amori (piccolo marsupiale famoso per praticare il “suicidio riproduttivo”, copula anche 12 ore al giorno fino alla morte), passando da una femmina all’altra.
La soluzione del problema di Melito, esposto in maniera magistrale nel suo scritto, sta tutta nell’affrontare a viso aperto, come fa coraggiosamente lei, una crisi educativa che ha generato questi mostri. E nell’esporre la sua ricetta così come si fa nei programmi di cucina, dispone tutti gli ingredienti in ordine di “apparizione”.
La bambina, la comunità, i violentatori. E così dice: “Perché vittima è la bambina e vittima è anche una comunità, quella di Melito, che per un pericoloso sillogismo viene identificata come solidale con i violentatori cosa a cui è difficile credere. Allora perché questa paura? Non intendo assecondare questo tipo di deriva irrazionale mentre è mia volontà quella di lavorare per rafforzare gli anticorpi contro ogni forma di violenza e di pericolosi pregiudizi”.
Stefania in questo passaggio, oltre a sciorinare un po’ di filosofia e biologia che non fa mai male, si domanda senza darsi una risposta, e dopo averla assolta, perché allora la gente ha paura?
Cioè: prima dice che la colpa non è della comunità se non hanno partecipato alla fiaccolata, ma della mancata emancipazione culturale di queste persone, come se questo fosse “secondario”, e poi allo stesso tempo affibbia alla paura e all’imposizione della ‘ndrangheta la mancata partecipazione. Ovviamente senza mai nominarla. Lo lascia intendere.
Perché se l’avesse nominata non avrebbe più potuto assolvere la gente di Melito dalle sue palesi e gravi responsabilità. Sarebbe stata costretta a parlare di omertà, di ‘ndrangheta, e di branco. E questo, inevitabilmente, significa inimicarsi un intera comunità.
Con l’arzigogolo invece è riuscita a dire tutto e non dire niente. Se dovessi configurare in un sillogismo il suo pensiero lo esporrei così: tutti gli abitanti di Melito, anche se omertosi e in parte mafiosi con figli stupratori, sono degli elettori, il PD ha bisogno di voti, ben vengano, per il PD, anche i voti di omertosi, mafiosi e stupratori.
GdD
Per chi vuole, la versione integrale del suo intervento:
Ci sono argomenti da affrontare con molta attenzione e cura, anche lessicale, perché come recita un vecchio adagio popolare la lingua non ha ossa ma le rompe.
Chiunque abbia letto della vicenda della giovane sedicenne di Melito Porto Salvo vittima di violenza sessuale da parte di un branco di uomini, quando di anni ne aveva solo tredici, non può che rimanere indignato a qualsiasi longitudine e latitudine di questo Paese.
Una storia di violenza criminale che distrugge la vita di una bambina.I media in questi giorni hanno riportato della scarsa partecipazione ad una manifestazione di solidarietà che si è svolta a Melito che ha trovato ampia eco anche attraverso i social.
Sono però preoccupata che in questo modo non si aiuti né la ragazza né la comunità di Melito perché alla fine rischiano di essere danneggiate esclusivamente le vittime.Perché vittima è la bambina e vittima è anche una comunità, quella di Melito, che per un pericoloso sillogismo viene identificata come solidale con i violentatori cosa a cui è difficile credere.
Allora perché questa paura? Non intendo assecondare questo tipo di deriva irrazionale mentre è mia volontà quella di lavorare per rafforzare gli anticorpi contro ogni forma di violenza e di pericolosi pregiudizi. Lo dico perché il caso di Melito va inquadrato in una dimensione di crisi educativa ben più ampia.
Nelle scorse settimane, infatti, abbiamo avuto modo di leggere anche di una ragazza, in provincia di Vibo Valentia, ferita dal fratello solo perché indossava una minigonna e non possiamo più far finta di non vedere.
Per questo l’unica cosa di cui non abbiamo assolutamente bisogno è quella di cadere nella semplificazione mediatica che diventa respingente e produce, per una paradossale eterogenesi dei fini, effetti collaterali devastanti in cui gli unici a beneficiari rischiano di essere proprio gli autori delle violenze.
Per scuotere le coscienze serve un costante lavoro di educazione in territori dove lo Stato fa fatica ad essere riconosciuto come tale.Bene, quindi, le parole del Procuratore De Raho e di tutti coloro che quotidianamente si confrontano con queste periferie dell’umanità e con vicende che risultano assolutamente sconvolgenti per la loro drammaticità e che superano ogni possibile immaginazione.
Serve un grande patto tra le istituzioni per un modello educativo che contribuisca a formare una cultura refrattaria alla violenza.
Dobbiamo sconfiggere il “se l’è cercata” che abbiamo letto o quell’antropologia da bar del “sono cose che accadono solo in Calabria” . Il nostro impegno deve essere finalizzato a contrastare in ogni modo queste barbarie ciascuno è chiamato a svolgere la sua parte proprio perché certe cose non accadano più.Perché una bambina di 13 anni possa continuare ad essere tale, una bambina.