Dopo la notifica dell’avvenuta chiusura indagini da parte della DDA sulla vicenda talpe a Cosenza, e dopo la pubblicazione di diversi articoli che raccontano questa storia, decide di intervenire l’ex brigadiere dei carabinieri, oggi in pensione, Antonino Perticari, uno degli indagati.
Nino il messinese è accusato dai Pm antimafia di essere uno dei soffia del clan Rango/zingari. Non ci sta l’ex brigadiere dei carabinieri a passare per un infedele. E, comunicando con la nostra redazione, ci tiene a sottolineare che tutte le accuse che i Pm gli muovono scaturiscono solo ed esclusivamente dalle dichiarazioni di diversi pentiti. Tant’è che lo stesso Gip, proprio nei suoi confronti, aveva rigettato l’ordine di arresto chiesto dai PM di Catanzaro.
Cosa che non avvenne con l’ispettore Ciciariello, prima arrestato, e poi rimesso in libertà dal Tribunale del Riesame.
E’ risentito Nino il messinese dal tono con cui i giornali, compreso il nostro, hanno trattato l’argomento, e chiede il diritto di replica. I Pm lo accusano di essere stato almeno 5 volte nell’abitazione del Rango fuori dal servizio, di essere un “referente” del clan, e di aver rivelato la posizione di alcune miscrospie, nello specifico di una microspia piazzata dentro una Y10 (fatto risalente al 2008).
Ribatte punto su punto il messinese: dice di essere stato una sola volta, “fuori servizio”, a casa di Rango e non cinque. E l’unica volta che c’è andato è stato per “concordare”, dopo essere stato chiamato dallo stesso Rango, la “resa” di Gennaro Presta.
“Non esiste, dice il messinese, come dimostrano tutti gli atti, una sola registrazione tra me e un qualsivoglia membro di un clan, men che meno tra me e Rango. Persona che tra l’altro ho più volte denunciato, insieme a molti suoi sodali. Così come sono stato il primo a notiziare i miei superiori dell’avvenuto omicidio di Luca Bruni”.
“Mi accusano di essere la talpa anche del clan “Bella Bella”, ma il mio stato di servizio parla per me: ho sempre arrestato questi soggetti. E se qualcuno ha volutamente frainteso il mio investigare, ovvero il mio muovermi tra i criminali, al sol fine di fare fino in fondo il mio dovere, come una mia adesione al sodalizio criminale, beh, più che andare dietro alle chiacchiere dei pentiti, i magistrati dovrebbero anche chiedersi se non sono io la possibile vittima di un complotto messo in piedi da qualcuno a cui la mia attività di carabiniere ha dato fastidio.
Qualcuno che ha deciso di vendicarsi. Non a caso contro di me ci sono solo le bugie dei pentiti. Gente che ho arrestato. E che oltre alla delazione non sa andare. Non hanno fornito un solo riscontro oggettivo alle loro accuse. Ho sempre fatto il mio dovere – continua il messinese -, non ho mai disonorato la divisa che con orgoglio ho portato e che ancora oggi mi appartiene.
Ho già avuto modo di depositare ai Pm della DDA una mia dettagliata memoria in cui rispondo punto per punto su tutto quello che mi si imputa. Ho sempre risposto a tutte le domande che mi sono state poste, non mi sono mai tirato indietro e sono sicuro di dimostrare la mia totale estraneità ai fatti che mi vengono contestati nel processo. Al quale non mi sottraggo e che affronterò con la serenità di chi sa di essere nei secoli sempre fedele. Allo Stato, all’Arma, alla mia famiglia, alla gente”.
Questa la replica del messinese.
Una considerazione vogliamo farla. Questa storia ci dà l’occasione di mettere ancora una volta in evidenza il peso specifico che hanno le dichiarazione dei pentiti. A noi pare, come questa vicenda sembrerebbe dimostrare, che le dichiarazioni dei pentiti valgono per alcuni e non valgono per altri. Dipende da chi sei.
Se parlano dei politici, come hanno fatto per Occhiuto, Paolini, Manna, Greco, per i colletti bianchi, i magistrati, gli alti dirigenti delle forze dell’ordine, gli avvocatoni, i notai eccetera, per alcuni procuratori e Pm restano solo parole sparse al vento. Che non vanno prese in considerazione né riscontrate.
Se non appartieni alla cupola, allora per te, come cantava qualcuno, “sono solo guai”.
Amaru chini cci ‘ngappa.