Oggi ricorre l’anniversario della scomparsa di Franco Dionesalvi. Per ricordarlo anche in questa ricorrenza, pensando sempre ai suoi familiari, andiamo indietro solo di qualche anno. All’inizio del 2019 Franco era intervenuto su Iacchite’ per una serie di precisazioni sulla giunta Mancini e il ponte di Calatrava. E come sempre non solo non era stato banale ma aveva assestato una serie pesante di fendenti alla banda del cazzaro che ha ridotto in mutande e al fallimento la nostra povera città. Ma anche alla sindaca che ci stava prima e che poi sarebbe diventata una del loro squallido “codazzo”.
di Franco Dionesalvi – 26 gennaio 2019 –
Una precisazione sulla giunta Mancini riguardo al ponte Calatrava mi pare necessaria.
L’idea che ci fu presentata era assai diversa da quella che vent’anni dopo è stata realizzata. Il ponte affidato alla progettazione di Calatrava doveva rappresentare un momento, con firma d’autore, di gioiosa stravaganza all’interno del recupero complessivo, severo e rispettoso, del centro storico di Cosenza. Quella che si è fatta alla fine, decontestualizzata, appare più che altro come un’opera da luna park. Per quanto riguarda il finanziamento, del reperimento dei fondi si occupava l’assessore Catizone.
Il resto avvenne dopo. Della giunta Catizone io non facevo parte. La neo-sindaca mi convocò e mi disse che, contrariamente a quanto si era impegnata a fare, io non potevo continuare a svolgere il ruolo di assessore alla cultura, perché sul mio nome il Pds aveva posto il veto. In cambio mi offriva una superconsulenza. Rifiutai, e non perché non avessi bisogno di soldi. Ma perché capivo che tutto un progetto di politica culturale finiva lì.
Perché sentivo che, io che non avevo mai avuto una tessera di partito in tasca e non ero stato eletto da nessuno poiché ero un assessore tecnico, tuttavia ero diventato il referente nel palazzo di centinaia, e forse migliaia di persone. Che in un confronto quotidiano, a volte anche aspro, interagivano con me e partecipavano all’idea di trasformare radicalmente Cosenza partendo da un lavoro collettivo sulla sua identità.
Un rimettere in gioco energie e risorse intellettuali e creative che da tempo, forse da sempre erano state accantonate; un provare a cambiare il mondo e, intanto, cambiare noi stessi. Una idea di politica culturale come perenne interrogazione, non salottiera ma operosa, con i pennelli in mano e col microfono che si passava di mano in mano. Tutto ciò finiva, e non perché non c’era più la mia persona, che non conta niente, ma perché le parole d’ordine diventavano altre.
Negli anni successivi, poi, e ogni anno di più, “cultura” è diventato la ricerca spasmodica del nome di un cantante che riempia la piazza. Per far vendere più birre possibile, e poi andare tutti a casa.