La scrittura. «Non ho un buon rapporto con lei. Mi annoia. Sono pensoso, ma spesso non tiro fuori. E invece lei mi costringe a fissare, lasciare un segno che poi non varia. Per un insicuro come me, meglio la tradizione orale».
L’infanzia. «Alla Heidi, tra i ruscelli della campagna calabrese. In cortile, la tuta con le toppe al ginocchio: giochiamo a pistoleri con i rami. Non voglio sparare all’altro, ma unirci contro nemici immaginari. Ero il più piccolo di tutti, cugini compresi. Si cresce male senza avere qualcuno su cui esercitare le angherie che esercitano su di te. Mi rubavano la merenda. Mia madre – figura affettuosa ma critica, a metà tra il metodo Montessori e la Franzoni, che dà gran valore all’equazione amore = rimorso di coscienza = ricatto = senso di colpa – ricorda che passavo lunghi pomeriggi in solitudine e in un mondo di fantasia quasi femminile con l’incubo della partita di calcio e del mister che mi urlava: “Muoviti, Besciamella!”».
La morte. «Come ogni adulto che resta un po’ bambino, credevo che quella di mio padre non sarebbe arrivata mai, che quel mio babbo vecchia maniera che diceva “ti voglio bene” cucinando una bistecca di maiale mi sarebbe rimasto dietro, permettendomi di cadere in piedi. Avevo 30 anni, e non me l’aspettavo. Ma devo ringraziarla: mi ha acceso una reazione, svegliato, orientato bene. Insegnato, forzatamente, che non potevo più sempre rimandare. Allora per mantenermi facevo il parcheggiatore a Siena dopo la laurea in Economia, e a volte sul palco mi commuovo accarezzando l’impossibilità di averlo lì in platea nel minuto degli applausi. “Hai visto quanta gente c’è qui per tuo figlio, ba’?».
Sui «primi sogni», spesso sbagliati (il suo era diventare commercialista). «Puoi trasformarli. Quando incido un album, da maniaco del foglio excel annoto musicisti, strofe, ritornelli. Sono un grande fan del voler limitare la possibilità che accada l’inaspettato. Quando nessuno in fondo può».
Desideri e contraddizioni della sua generazione, 40enni che si erano preparati a un tipo di esistenza – lavoro fisso, casa di proprietà, nozze e figli, frigo pieno, conto in banca a posto – e ora se ne trovano di fronte un’altra. «Siamo nella terra di mezzo, con punti interrogativi giganti, divisi tra la tentazione delusa della serenità domestica e qualcosa che si agita in noi e persevera nel rompere quello schema, la linearità di sequenze già viste. Vorremmo star tranquilli, ma in un percorso non tracciato. Perché guardando indietro lo sappiamo: per quell’epoca felice qualcosa della nostra libertà personale andava sacrificato».
Paure. «Molteplici. La più forte è non esistere più: scomparire».
La testa. «Una fregatura. Con il cervello acceso, non si può essere felici. Come il filtro Amaro di Instagram, il mio preferito: distacca, in verità lo toglie, calore».
Il lavoro. «Quando c’è, crolla il limite tra le ore libere e quelle che gli dedichiamo. E ancora non abbiamo capito se è un bene o un male».
La spiritualità. «Anche Dio si sta adattando: è ormai liquido. A Palermo il tempio indù è nel santuario di Santa Rosalia. E centinaia di napoletani si stanno convertendo all’Islam».
Autoritratto. «Bel tipo, affascinante seppur lievemente sovrappeso. Appassionato dei personaggi solo all’apparenza di contorno, marginali: il ragazzo alle tastiere, il tecnico del suono. Che non prevedono esposizione diretta agli sguardi altrui. Indole vanitosa, s’intende d’inerzia».
L’amore. «Simona, conosciuta mentre studiava Giurisprudenza a Siena. In 20 anni siamo riusciti a crescere senza allontanarci, a cambiare senza spaventare l’altro».
Il matrimonio. «Non ci ho mai creduto: il contratto presuppone un obbligo. E io, dove non sono obbligato, obblighi non ne voglio. Come nel mio Secondo me: “A che ci serve un prete o un messo comunale / Se c’è una cosa innaturale / È doversi dare un bacio / Davanti a un pubblico ufficiale”».
Un figlio. «Provenendo da questa radice, sarebbe una creatura bellissima. Mi sento cattivo nel non concedere questo regalo alla Terra ma una parte di me è spaventata proprio da quello che brilla negli occhi degli amici quando ti dicono: “Guarda che ti cambia la vita!”».
Casa. «A San Fili, Cosenza: chiesa, piazza, bar, cimitero. Così Roma e Milano sembrano villeggiatura. La mia esistenza poco avventurosa non asseconda completamente il cambiamento, gli fa una resistenza buona: il divano e la stufa a pellet, l’ozio oltre il dovuto in cui ci consumiamo sono il mio rifugio indiscutibile, il mio porto sicuro. Quando rientro dopo un mese, ho voglia di aprire quella porta. E, lì, restare».