(di Antonello Caporale – ilfattoquotidiano.it) – Il rapimento di una neonata a opera di chi, fingendosi mamma, si è calata dentro il catino criminale della propria mente deviata, è durato per fortuna solo qualche ora di un pomeriggio di qualche giorno fa. Poteva e doveva essere chiuso e già dimenticato. Il crimine era chiaro, la preoccupante salute mentale della protagonista, già assicurata alla giustizia, altrettanto evidente.
Ma l’evento, così singolare e anche così raccapricciante, aveva in sé il germe dello scandalo. E nello scandalo, nel morbo che muove la curiosità allineandola al cinismo e alla crudeltà, ci siamo tuffati anzitutto noi giornalisti, ingolositi da una storia così pazza e così diabolica. Le televisioni hanno perciò rincorso ogni voce, anche la più inutile, e trasformato i poliziotti di Cosenza in eroi dei due mondi per aver sgominato mamma Rosa, il suo pancione finto e consegnato ai genitori in ansia la piccina. Anche la presidente del Consiglio si è congratulata per l’enorme successo delle forze dell’ordine terrestri calabresi.
Abbiamo quindi assistito in settimana al racconto incessantemente ripetuto, sezionando ogni passo, ogni segno e purtroppo oltrepassando ogni misura, ogni continenza. Le istituzioni condannano la gogna mediatica di cui spesso proprio le donne sono vittime. Gente senza scrupoli, bande che agitano sui social la forca e attaccano in branco la vittima designata. Questa volta però la gogna a cui è stata sottoposta – anche per mano di chi dovrebbe combatterla – l’imputata ora agli arresti è risultata un effetto collaterale del reato, quasi una punizione primordiale necessaria.
Dal salotto di casa chiunque ha potuto impugnare l’ago appuntito e infilarlo, grazie alla tv, sul pancione ormai sgonfio della criminale. Clap, clap.