La puntata di Report del 22 giugno scorso sull’ex generale Mori potrebbe essere il movente dell’attentato a Sigfrido Ranucci? Tra le piste considerate dagli inquirenti c’è anche questa. Di seguito, un articolo molto approfondito sul “generale”.
Fonte: Strisciarossa
È stato assolto in tre processi, uscendone con la medaglia di super-investigatore, ovviamente senza macchia. Qualche punto da chiarire della sua carriera ultratrentennale per la verità è rimasto tale, ma guai a parlargliene. È più forte di lui. L’ex generale, ex comandante del Ros dei Carabinieri, ex ufficiale del Sid, ex direttore del Sisde Mario Mori si irrita, si arrabbia e, alla fine, si inalbera. Ma soprattutto delude l’interlocutore, anche quando chi gli rivolge le domande è un presidente di Corte d’assise di Bologna. Niente da fare. A costo di beccarsi una denuncia per testimonianza falsa e reticente (archiviata dal Gip nel 2024), Mori non ti aiuta a capire chi è e cosa ha fatto. Almeno quando viene interrogato a Bologna, è scritto in sentenza. Se invece deve parlare della sua trascorsa attività di fronte alla Commissione parlamentare antimafia, eccolo impegnarsi in manovre almeno apparentemente anomale – lo ha rivelato due giorni fa la trasmissione Report – come il suggerimento di consulenti da assumere: un magistrato, un giornalista e persino il suo avvocato. È come se un testimone convocato in un’aula giudiziaria, anziché raccontare quello che sa, suggerisse alla Corte quali periti nominare per definire il caso.
I depistaggi sull’orrenda strage di Bologna
Tutti i prescelti di Mori, hanno una comune caratteristica: l’avversione manifesta contro due magistrati, Federico Cafiero De Raho, ex procuratore nazionale antimafia, e Roberto Scarpinato, che da magistrato palermitano indagò, tra l’altro, sugli omicidi di Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, Michele Reina, segretario provinciale della Dc, Pio La Torre, segretario regionale del Pci. Oggi entrambi sono parlamentari Cinque stelle e membri della Commissione. Destinataria delle pressioni di Mori, potrebbe essere, tra gli altri, Chiara Colosimo, presidente dell’Antimafia, parlamentare di forte ascendenza meloniana, impegnata in una singolare battaglia per tagliare fuori Scarpinato dalle attività dell’Antimafia. A questo, secondo Report, si aggiungono le telefonate tra il colonnello De Donno, stretto collaboratore di Mori ai tempi della trattativa, e Marcello Dell’Utri: l’ufficiale si congratula con l’amico e mentore di Berlusconi per l’assoluzione in Cassazione dall’accusa di concorso esterno ad associazione mafiosa. Due anni dopo il verdetto viene capovolto e Dell’Utri è condannato a 9 anni di carcere.
Nell’attesa che il nuovo caso Mori venga chiarito prima di tutto in Parlamento, può essere utile capire quali sono le domande a cui l’ufficiale che catturò Riina nel ’93 (dimenticando però di sorvegliarne il covo, che fu accuratamente ripulito da mani ignote: “Si trattò di un equivoco”, ha spiegato) non ama rispondere, quali sue affermazioni ne contraddicano altre fatte solo pochi mesi prima, e quali entrino in conflitto con sentenze ormai passate in giudicato. Ne danno un ampio saggio le motivazioni della sentenza con cui il 9 gennaio 2020 la Corte d’assise di Bologna condannò il neofascista Gilberto Cavallini per la strage del 2 agosto.
La memoria di Mori non lo sorregge persino quando si parla di crimini efferati, che hanno lasciato tracce indelebili anche in non addetti ai lavori. A Palermo comanda il Gruppo dei Carabinieri tra l’86 e il ’90. Sono gli anni in cui si indaga sui delitti cosiddetti “eccellenti” che hanno insanguinato il capoluogo siciliano sin dalla fine del decennio precedente. Il 3 ottobre 2018 siede nell’aula in cui viene processato l’ex terrorista dei Nar Cavallini, accusato della strage alla stazione in concorso con Francesca Mambro, Valerio Fioravanti, Luigi Ciavardini. Oggi tutti e quattro risultano condannati con sentenza definitiva per quello scoppio nella sala d’attesa di seconda classe. In primo e secondo grado è già stato condannato Paolo Bellini, presente nei momenti in cui la stazione del capoluogo emiliano saltava in aria, punto di raccordo tra la strategia della tensione, culminata con la strage di Bologna, e le bombe di mafia esplose nel ’93 a Milano, Firenze e Roma. Risulta dalla testimonianza di un maresciallo del Nucleo di difesa del patrimonio artistico, che nel ’92 Bellini fece avere a Mori, all’epoca comandante del Ros dei Carabinieri, un foglietto di Antonino Gioè, artificiere della bomba che a Capaci uccise Giovanni Falcone. Nomi di boss da liberare in cambio della restituzione di quadri rubati. E forse, insieme al pizzino, anche anticipazioni su ciò che Cosa nostra preparava con gli attentati del ’93.

Il mistero di un foglietto sparito
Quel foglietto non si trova più. Due stagioni di sangue ormai lontane si intersecano nella figura di Bellini e Mori, investigatore di lungo corso, ha sicuramente molto da dire in proposito. Perché allora ha cercato, come emergerebbe dall’inchiesta di Report, di orientare, forse teleguidare, la Commissione antimafia? Di certo, per il momento, si sa che il generale del Ros Mario Mori, è accusato a Firenze di associazione mafiosa e associazione con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico perché, secondo i Pm, “pur avendone l’obbligo giuridico, non avrebbe impedito mediante doverose segnalazioni e denunce all’autorità giudiziaria, ovvero con l’adozione di autonome iniziative investigative e preventive, gli eventi stragisti di cui aveva avuto anticipazioni”, poi verificatisi a Firenze, Roma e Milano, nonché il fallito attentato allo stadio Olimpico. La conclusione dell’inchiesta è prevista entro il 2025.

I “non ricordo” sull’assassinio di Piersanti Mattarella
Nicola Brigida, un avvocato che a Bologna difende i familiari delle vittime, chiede a Mori cosa ricordi della morte del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, assassinato il 6 gennaio del 1980. Su un rapporto del gruppo Eversione, ricorda Brigida, compare una “richiesta orale” dell’allora tenente colonnello Mario Mori sulla posizione di Valerio Fioravanti. Il leader del gruppo neofascista Nar era all’epoca accusato di aver assassinato Mattarella insieme a Gilberto Cavallini, successivamente furono entrambi assolti. Agli atti c’erano tra l’altro le parole di Irma Chiazzese, vedova Mattarella che aveva visto in faccia il killer del marito, riconoscendolo in Valerio Fioravanti. Mattarella, virtualmente erede di Aldo Moro, era una figura di primo piano nella Democrazia cristiana e sembrava destinato alla guida del partito dopo l’omicidio del presidente della Dc da parte delle Brigate rosse. Chiede l’avvocato Brigida: “Sembra che lei avesse fatto una richiesta orale per approfondire alcuni aspetti dell’inchiesta”. Replica Mori: “E non me lo posso ricordare…Probabilmente mi ha fatto una telefonata Giorgio Tesser (comandante del gruppo che si occupa di eversione, ndr), ma …”. Brigida insiste: “Ecco, ma a Palermo ricorda di aver…”. Mori scatta: “Ma era già morto e sepolto Piersanti Mattarella. Io sono andato nell’86 e non c’era già (più, ndr) il problema Mattarella”. “Morto e sepolto”, strana espressione, considerato che il caso è ancora aperto a oltre quarant’anni di distanza. E che Mattarella è una vittima di mafia su cui Giovanni Falcone indagò fino al 1989.
Quella del 2018 è una deposizione tesa, più che risposte propone interrogativi. Tra il 16 marzo 1978 (il giorno del rapimento Moro) e il 1986, Mori è stato comandante a Roma della sezione Anticrimine che era divisa in tre settori: terrorismo di destra, terrorismo di sinistra e terrorismo internazionale. Alla domanda se, all’epoca della strage di Bologna svolse indagini sul terrorismo nero, risponde: “Sì, qualcosa”. Il terrorismo nero aveva “firmato” in quegli anni l’omicidio del pubblico ministero Mario Amato (23 giugno 1980), lasciato solo a indagare sull’estrema destra. Eppure Mori ricorda molto poco di una vicenda che aveva avuto un’eco dirompente anche al Consiglio superiore della magistratura e sui media. Di Marco Mario Massimi, teste chiave dell’omicidio, ricorda che “era coinvolto in qualche indagine” e non rammenta nemmeno se fosse di destra o di sinistra (era di destra e portava una catenina al collo con una svastica). Insomma il livello di conoscenza dell’ufficiale sembra leggermente inferiore a quello di un lettore medio dei giornali. “… a Roma non c’era soltanto la sezione Anticrimine…I carabinieri erano tanti. Cerano tutti i Nuclei Investigativi, c’erano tutte le Compagnie… Quindi se lei mi specifica di che Carabinieri si tratta, io le parlo. Altrimenti non sono in grado di farlo”.
Le versioni sulla lotta al terrorismo
Tenore e contenuto di queste dichiarazioni sembrano del tutto in contrasto con quanto dichiarato da Mori durante il processo per la trattativa Stato-mafia, a Palermo, il 20 aprile 2018. La sezione Anticrimine di Roma, al cui comando era stato assegnato, era “il Reparto dell’Arma a cui spettava il compito del contrasto al terrorismo nella capitale e nel Lazio”, aggiungendo: “Ho retto il Comando della Sezione Anticrimine di Roma per quasi sette anni, dal 16 marzo 78 al 5 di gennaio 85, nel periodo cioè più significativo della lotta al terrorismo interno, sia di destra che di sinistra, operando proficuamente e in piena intesa con i magistrati impegnati nel contrasto a quel fenomeno”. E aggiunse di aver anche indagato, su incarico del giudice Domenico Sica, sull’operazione “Terrore sui treni”, clamoroso tentativo di depistaggio delle indagini sulla strage alla stazione. Dunque, secondo i giudici di Bologna, l’alto ufficiale ha negato quanto a Palermo aveva affermato. Se quella di Mori non è stata, come ha stabilito il Gip, una testimonianza falsa e reticente, sembra però impossibile definirla lineare e coerente.
Tra il 1972 e il 1975, Mori operò nel Nord Est come agente del Sid (il servizio segreto militare dell’epoca) e anche su questo i suoi ricordi appaiono un po’ vaghi e difformi da quanto ormai è scritto in numerose sentenze. A Palermo ha definito la Ftase (Forze terrestri alleate del Sud Est), una struttura della Nato, un comando con compiti di coordinamento e non operativi, in pratica poco più di una sede per passacarte con molte stellette. “Ogni altra funzione o impiego è unicamente frutto di avventate illazioni che non trovano supporto in nessun riscontro infatti documentalmente accertati”, ha detto. Se prove documentali che provino il contrario non ci sono, esistono testimonianze di collaboratori di giustizia e scritti sequestrati che sembrano dimostrare il contrario di quello che ha detto Mori. Al comando Ftase di Verona, in base all’agenda del colonnello Amos Spiazzi (Rosa dei venti), era di casa Jean Jacques Susini, ex combattente Oas in Algeria, che in Italia addestrava operativi di Ordine Nuovo e Avanguardia nazionale. Nella stessa base Ftase poteva entrare e uscire l’ordinovista Marcello Soffiati, coinvolto nelle indagini sulla strage di Brescia. Il supertestimone Carlo Digilio, anche lui legato ai Servizi statunitensi ha detto di essere stato introdotto alla base veronese dal professor Lino Franco, ex repubblichino reclutato dagli americani in funzione anticomunista.
Mori accredita una sua vocazione anti-piduista, raccontando di essere stato allontanato dal Sid per aver contrastato Gianadelio Maletti, capo del controspionaggio, e il suo collaboratore Antonio Labruna, entrambi affiliati alla loggia di Gelli. Viene però contraddetto da Massimo Giraudo, ufficiale del Ros con una lunga esperienza in fatto di eversione nera. Fu proprio Mori, afferma Giraudo, a proporgli di incontrare Gelli ad Arezzo: “Gli sarei piaciuto”, la motivazione, “perché anch’io sono toscano”.
Sorge spontaneo un interrogativo. Se, approfittando della destra di governo, Mori ha davvero tentato di orientare la Commissione presieduta da Chiara Colosimo, celebre anche per un selfie in cui abbraccia Luigi Ciavardini, di quali argomenti gradirebbe parlare? E quale narrazione si cerca di agevolare tenendo sotto attacco ex magistrati come Scarpinato e Cafiero De Raho, il cui unico interesse è quello di impedire in Commissione ulteriori depistaggi sulla morte di Paolo Borsellino, assassinato insieme alla scorta (19 luglio 1992) con un’auto imbottita di tritolo. Via D’Amelio potrebbe essere solo il punto di partenza di una campagna revisionista, gradita a Fratelli d’Italia che, a giudicare dalle risposte di Mori, potrebbe riguardare l’intera strategia della tensione, almeno dagli anni Settanta in poi?









