Cutro: “Città del pane e degli scacchi”. Una definizione che a leggerla bene suona un po’ da contraltare alla più nota locuzione latina “panem et circenses”. Roma: “Città del pane e del Colosseo”. Se vuoi tacitare e asservire al tuo volere il popolo, devi nutrirlo e divertirlo. Così la pensavano gli antichi politici romani che utilizzavano i “giochi nell’arena” come strumento di distrazione di massa per placare, contenere e controllare i tanti malumori popolari di quell’epoca. Un popolo che non pensa ai problemi, si controlla facilmente.
Meglio tenerlo occupato sulle gradinate dell’arena a tifare per i gladiatori piuttosto che affrontarlo per le strade mentre protesta e devasta la città per questo o quel problema. Il nutrirsi di solo pane e circo, però, alla lunga, crea assuefazione e rende gli uomini sciocchi, docili e incapaci di pensare. Ma se proviamo a sostituire, nella locuzione latina, il circo con gli scacchi, il contenuto “dell’antica formula romana”, che diventa “pane e scacchi”, assume un altro significato. Tutti sanno che quello degli scacchi è un gioco di strategia e abilità logica. Pensare alla mossa da fare, prima di agire, valutando logicamente tutte le possibili conseguenze, sta alla base di questo gioco. E un popolo che pensa, è difficile da controllare. Pane e scacchi è perciò l’esatto contrario di pane e circo. Come a dire: i romani si lasciavano abbindolare con il circo, i cutresi che preferiscono gli scacchi, e per questo conosciuti come gente di pensiero, non si lasciano certo abbindolare, come gli antichi romani, da 4 gladiatori. Fregiarsi di questo titolo, che si appunta solo sul petto di comunità evolute e libere, deve essere l’orgoglio principale di ogni cutrese. A cominciare dal grande “Puttino”.
Cutro, ridente, ma non troppo, paese situato su un altopiano a 226 metri sul livello del mare, nell’entroterra ionico calabrese, in provincia di Crotone. Quasi 9000 gli abitanti, ma con un potenziale abitativo di quasi il doppio. Infatti la prima caratteristica che salta agli occhi girando per il paese sono le tante abitazioni chiuse, oltre al classico non finito calabrese. A guidare l’amministrazione l’ex comandante della polizia locale, Antonio Ceraso, unico e solo candidato eletto nel novembre del 2022 dopo lo scioglimento per mafia del comune nell’agosto del 2020. Legalità la sua parola d’ordine. Dopo il tragico naufragio avvenuto nella frazione di “Steccato”, il paese di Cutro, già famoso di suo per aver dato i natali a potenti cosche di ‘ndrangheta che oggi agiscono a livello globale, si è nuovamente ritrovato al centro della cronaca mondiale. Il nome del paese oltreché sulla bocca di quasi tutti gli sbirri del mondo è finto pure sulla bocca di numerosi capi stato, Papa compreso. In tanti, dopo la triste e drammatica sciagura, si sono recati nella terra che Pier Paolo Pasolini scelse per girare diverse scene del film “Il Vangelo secondo Matteo”. A cominciare dal capo dello stato all’indomani della disgrazia, per arrivare al presidente del consiglio che ha inteso svolgere, insieme ai suoi ministri, proprio l’altro ieri, il Cdm a Cutro. Una attenzione così per il paese, al netto delle tante vicende di cronaca giudiziaria che non hanno mai attratto nessun Cdm a Cutro, non si vedeva dal 1575 quando re Filippo II di Spagna, concesse il titolo di città a Cutro dopo la straordinaria vittoria del cutrese Giò Leonardo Di Bona, detto il Puttino per la sua bassa statura, al primo torneo di scacchi d’Europa e del Nuovo Mondo.
Due diversi eventi: uno gioioso e glorioso, e l’altro estremamente tragico. Del resto è sempre la straordinarietà dell’evento, lieto o tragico che sia, a fare notizia. Cutro è al centro, suo malgrado ancora una volta, della tragicità della notizia. La città è diventata la scena del crimine dove ha agito l’assassino dell’umanità. E non è certo la prima vota che Cutro si ritrova ad essere “scena del crimine”. Tanti sono gli omicidi di ‘ndrangheta avvenuti in quel territorio che, ricordiamolo, ancora oggi è il regno di Nicolino Grande Aracri, detto “manu i gumma”, boss della più potente ’ndrina al mondo. Verrebbe da dire, senza voler essere blasfemi: il suo regno non ha confini. Così come il suo patrimonio che nessuno è riuscito mai a quantificare. Siamo nell’ordine dei miliardi di euro. Manu i gumma non ci mise molto a scalare i vertici delle ‘ndrine locali e della borghesia mafiosa. Risoluto, perspicace, scaltro, seppe approfittare, dopo anni di servizio al suo fianco, dall’assenza forzata dal territorio, causa detenzione, del carismatico boss di Cutro, Antonio Dragone, patriarca e fondatore (anni ’60) della potente ‘ndrina “Dragone/Ciampà”. All’epoca, anni settanta, a Cutro e dintorni, imperversavano tante famiglie di ‘ndrangheta: “c’era la famiglia di Feroce Sergio, nonno di Eugenio Sergio, parente di Maria Sergio già capo dell’urbanistica al comune di Reggio Emilia, oggi dirigente pianificazione al comune di Modena, moglie del sindaco Luca Vecchi; c’era la famiglia Spagnolo guidata da “Toto Paolini”; c’era la famiglia Migale meglio conosciuta come famiglia Marerosa; c’era la famiglia “Pulitino” all’anagrafe famiglia Valerio; cerano i Nisiria, i Vertinelli, i Tulifera, i Perrotta Dattilo, e gli Oliverio da tutti conosciuti come i Cassarola. Nemici giurati dei Dragone/Ciampà”.
La spietata concorrenza criminale di quegli anni scatenò sanguinose guerre di ‘ndrangheta per il controllo del territorio. A dare il via alla faida tra i Cassarola/Marerosa, alleati con i Tulifera, contro i Dragone/Ciampà, sostenuti dalla famiglia Mannolo di San Leonardo di Cutro, e all’epoca, anche dalla potente famiglia Arena di Isola Capo Rizzuto, un litigio scoppiato all’interno di una agenzia di assicurazione tra l’allora bidello con aspirazioni da boss Antonio Dragone e Ciccio Oliverio detto Cassarola. Alcuni giorni dopo Ciccio Dragone, fratello di Antonio, venne ucciso durante uno scontro a fuoco dove rimase ferito Ciccio Cassarola. La guerra tra i due clan lasciò sul campo anche Antonio Spagnolo, Vittorio e Gaetano Colacino, Domenico e Salvatore Oliverio. Seppelliti i morti e sconfitti i nemici Antonio Dragone diventò per tutti don Antonio Dragone, capo indiscusso di Cutro.
Zù Totò fu tra gli apripista di quella che già per diverse famiglia mafiose di Cutro era la “Via per l’Emilia”, la strada giusta da percorrere per chi come lui voleva allargare i propri confini criminali. L’Emilia Romagna, una terra “vergine” che prometteva grandi affari. E dopo la sua affermazione, a suon di pallottole, fu facile per don Antonio, stabilire una colonia di picciotti per controllare il nuovo e vasto territorio. Picciotti come Antonio Ribello, “Renè” e “Topino” in breve tempo e con i giusti agganci, trasformarono la locale di Reggio Emilia, guidata dal clan Dragone/Ciampà, in una delle ‘ndrine più potenti del nord Italia. Un clan riconosciuto, stimato e temuto da tutti. Riconosciuto anche dalle famiglie Crea e Iamonte. L’ascesa criminale del clan è incontenibile, e Compà Totò, entra di diritto nel gotha dalla ‘ndrangheta. Custode, insieme ad altri pochi, dell’antico rito di affiliazione alla ‘ndrangheta. Fu proprio Antonio Dragone, il bidello diventato boss, a fare di Nicolino un “cristiano”. Nicolino fu il suo fedele braccio destro per tanti anni, fino a quando, e dopo aver stretto le giuste alleanze, spinto dalla sete di denaro e potere, decise di rompere con il vecchio e detenuto padrino, rifiutandosi di fare da compare di anello al figlio Raffaele. Più che un rifiuto fu una vera e propria dichiarazione di guerra.
Il primo a cadere sotto i colpi dei killer fu proprio l’allora trentaseienne Raffaele Dragone da poco uscito dal carcere. Era 31 agosto del 1999, quando, dentro un’auto, nelle campagne di Santa Severina, furono ritrovati crivelli di colpi i corpi di Raffaele Dragone e Tommaso De Mare. Ad armare la mano dei killer l’uomo che Raffaele avrebbe voluto come “testimone d’onore” alle sue nozze, cumpari Nicolino, Manu i gumma. Da allora una lunga scia di sangue attraversò le campagne di Cutro e le strade di diversi paesini in provincia di Reggio Emilia, diventati, nel mentre, potenti locale di ‘ndrangheta. La morte di Raffaele segnò profondamente il vecchio boss, già provato dalla morte, per cause naturali, di un altro figlio, che non tardò a mettere in moto la sanguinosa macchina della vendetta. Ordinò a Paolo Bellini, killer neofascista implicato in tanti omicidi e stragi, conosciuto a Quattro Castella, in provincia di Reggio Emilia durante il suo confino, di uccidere “Manu i gumma”. Ma il Bellini, oggi pentito, non riuscì nell’impresa nonostante il lancio di una bomba a mano al bar Pendolino a Reggio Emilia, luogo di ritrovo, all’epoca, dei compari di Manu i gumma. Il rapporto tra il Dragone e il Bellini che non aveva problemi a lavorare anche per i nemici di Zù Totò conferma, la solida e consolidata collaborazione tra fascisti e ‘ndrangheta.
Raffaele Dragone, nato il 23 aprile del 1963, era il giovane figlio del boss Antonio, reggente del clan in assenza del padre. “Rafele” era un ragazzo educato dai modi semplici e gentili, ma per tutti era il figlio del boss, e da tale doveva comportarsi. E questo, quando si appartiene per sangue ad una potente e agguerrita famiglie di ‘ndrangheta, non è negoziabile. Non c’è modo di sfuggire a questa regola. Rarissimi sono i casi di dissociazione dalla propria famiglia. E Raffaele da bravo figlio del boss qual era, aveva iniziato la sua gavetta da giovanissimo. Aveva conosciuto la galera e poco prima di essere barbaramente ucciso aveva appena finito di scontare una lunga condanna per traffico di stupefacenti. Non era uno studioso, aveva una media scolarizzazione che “accompagnava” ad una grande curiosità, a differenza dei rozzi e incolti picciotti che lo circondavano, anche per ciò che ‘ndrangheta non era. Un ragazzo dalla mentalità aperta e generoso con gli amici sulle cui giovani spalle pesavano le enormi responsabilità che il suo lignaggio mafioso gli imponeva. Ha conosciuto poco la Libertà, e quando pensava di averla ritrovata, la ‘ndrangheta gli ha presentato il conto. Per diventare il nuovo boss bisogna uccidere il vecchio boss, e se il vecchio boss non è disponibile, per il momento va bene anche il figlio. È questo che ha pensato Nicolino quando ha commissionato il delitto. È questo quello che succede tra clan: non sai mai chi sta con chi. Chi è davvero amico e chi finge. Nei clan il senso dell’onore tanto decantato altro non è che pura violenza per mera sete di denaro. Per soldi si ammazzano anche i fratelli.
Zù Totò non regge l’urto dell’offensiva militare messa in campo dal suo vecchio amico Manu i gumma che era riuscito a portare dalla sua parte le potenti famiglie di Petilia Policastro, il paese di Lea Garofalo, e quelle di Isola Capo Rizzuto, e una volta scarcerato decide di ritornare a Cutro nel vano tentativo di riorganizzare quel che restava del decimato clan, per cercare di resistere all’attacco, che in quel momento subiva su più fronti. Oltre che con Nicolino, Antonio Dragone era in guerra anche con i Vasapollo. Una volta giunto in paese, dopo 20 anni di galera, il 10 maggio del 2004 mentre era a bordo della sua auto blindata guidata da Giovanni Spadafora, lungo la vecchia strada statale 106, quella che da Cutro conduce all’ormai famosa frazione di Steccato, fu affiancato da una Lancia Thema verde bottiglia dalla quale partirono numerose raffiche di mitra, l’auto con a bordo il boss sbanda e finisce fuori strada. Il vecchio boss tenta di sfuggire all’agguatato correndo verso una boscaglia, ma viene raggiunto dagli assassini che lo ammazzano con un colpo in fronte. Assassini che non si preoccupano della presenza di Giovanni Spadafora che resta illeso e riesce a fuggire. Dal quel momento in poi il segnale è chiaro a tutti: c’è un nuovo boss in citta e si chiama Nicolino Grande Aracri.
Manu i gumma riesce in poco tempo a mettere su le basi per quella che diventerà la ‘ndrina più potente del mondo, con contatti e coperture di altissimo livello e che agisce su scala globale. La ‘ndrina muove una montagna di soldi per lo più incassati dall’enorme traffico di droga messo in piedi dallo scaltro Nicolino. Compra tutto e tutti. E tutti fanno la fila per entrare nel suo clan. Cutro, dove vive tanta gente onesta ma che non può certo disconoscere tutto quello fino ad ora scritto, è l’epicentro, suo malgrado, di una agguerrita ed efficiente rete criminale che ha totalmente colonizzato e monopolizzato l’intero mercato criminale del nord Italia. A Cutro niente si muove senza il permesso di Nicolino che pare gradisca tutta l’attenzione mediatica che la sua città oggi riceve dopo l’immane sciagura, visto che si parla di Cutro come città della pace, dell’amore e della fratellanza, invece che della solita Cutro criminale che la fratellanza manco sa dove sta di casa. Perciò ben venga il governo a Cutro.
Ad un governo così attento nel tutelare la vita e la salute di tutti, compresa la vita e la salute di quelli che stanno al 41 bis (tranne Cospito), che in fondo somigliano molto ai disperati morti in mare, non si può che battere le mani. Oggi è tempo di umanità. E chissà che questa volta la città di Nicolino non riceva davvero, dopo l’annuncio di una possibile visita a Cutro del Papa, la candidatura al Nobel per la Pace. Una occasione da sfruttare e che Nicolino avalla nelle sue pregherie, che potrebbe riportare, se Dio vuole, in questo straordinario momento di amore e fratellanza che ha avvolto il paese, la pace anche tra le famiglie mafiose che a Cutro si combattano da anni.
Nicolino, in cuor suo, sostiene l’amore che i suoi concittadini hanno riversato sulla Meloni che per la prima volta pone Cutro al centro di vicende che nulla hanno a che fare con le sue malefatte. Nicolino, vuole riparare, nei suoi pensieri, al torto che ha fatto al suo paese macchiando le strade di sangue. È pentito di essere la causa della brutta nomea che circola in ogni dove sul paese. Perciò è rimasto contento nel sapere, attraverso la tv, che i suoi paesani hanno accolto il governo con giubilo e gioia e si detto dispiaciuto della presenze di poche persone, estranee al paese, che protestavano contro la pace e l’amore. Persone che non si posso dire certamente figli di Maria, perciò vanno allontanati dal paese. E qualche figlio di Maria ha pensato bene di ricordarlo agli infedeli che protestavano contro l’amore, lanciando un urlo dalla piazza che invitava i figli di satanasso a non tornare mai più a Cutro.
Nicolino c’ha provato a dirlo anche a Gratteri che voleva pentirsi, ma Gratteri non c’ha creduto. Nicolino ha fatto la mossa sbagliata. Voleva arrivare al Re, utilizzando la sua Regina, ma la mossa tanta pensata è miseramente fallita. Il che dimostra che, seppur figlio di quei luoghi, manu i gumma non può dirsi degno discendente del grande, ma basso di statura, Puttino. Che di sicuro in una partita così delicata avrebbe fatto la mossa giusta. Benvenuti a Cutro la città che aspira al Nobel per la pace, anche, tra le cosche.