di Francesco Strazzari
Fonte: il manifesto
Come le ossessioni, tutto precipita seguendo il proprio corso. Dopo aver trovato la strada spianata dall’aviazione israeliana, i bombardieri Usa sono rientrati placidamente nel Missouri. Mission accomplished, quasi fosse finita, mentre la guerra non fa che espandersi. JD Vance rassicura la base Maga, dichiarando che gli Stati uniti non sono in guerra con l’Iran, ma solo col suo programma nucleare, figlio dell’insipienza dei precedenti presidenti nel fare i conti con il Medio oriente. Ecco affacciarsi subito uno dei temi ricorrenti nel dibattito sulla politica estera Usa: il predecessore aveva bombardato male, causando guerra, così che oggi il nuovo presidente è costretto a bombardare, ma lo fa bene e ci porta la pace. Il tutto attraverso l’esaltazione della forza della superpotenza, decisiva perché in grado di produrre «danni monumentali».
Ma non passano che pochi minuti e il capo supremo, l’irrefrenabile Donald Trump, esprime il proprio favore per il cambio di regime a Teheran (Make Iran Great Again!). E l’indomani mattina Netanyahu manda i jet a bombardare pasdaran, carcere e università iraniane, mietendo centinaia di morti. Nessuno, a questo punto, sa dove si trovino i 400 kg di uranio altamente arricchito che risultavano depositati nei tunnel di Ishafan, a quanto pare non compromessi dalle bombe. Il segretario di stato Marco Rubio sostiene che nulla ormai può essere mosso in Iran, eppure i satelliti mostrano che i Tir si sono mossi eccome attorno ai siti nucleari, anche nell’immediatezza del bombardamento americano. La propaganda si sforza di spiegare che è stata fermata la capacità di arricchimento, sferrando un pesante colpo al programma nucleare degli Ayatollah. Ma mancano notizie dell’enorme base sotterranea scavata nel cuore delle montagne nei pressi di Natanz, dove l’Iran tre anni fa ha spostato una produzione di centrifughe. Anche senza considerare l’esistenza di siti segreti, dunque, nelle mani del regime iraniano, oltre al know how scientifico, restano 400 kg di uranio arricchito al 60%, un paio di siti di arricchimento e la capacità di produrre centrifughe. Se questo è il quadro, è difficile sostenere che Rising Lion (Israele) e Midnight hammer (Usa) abbiano rallentato la corsa all’atomica più di quanto avesse fatto, nel 2015, l’accordo voluto da Obama e dagli europei.
Il problema, allora, non è il programma nucleare, bensì il regime iraniano, il ruolo di Washington e il ridisegno dell’ordine internazionale. L’ossessione di Donald Trump si precisa ogni giorno di più nella smodata pressione a far passare ogni strada di guerra e pace per la Casa bianca. Non può essere sottovalutato quanto Trump sia disposto ad alzare la posta, inventandosi e intestandosi ogni successo, reale o presunto, passato e presente. Trump persegue l’obiettivo di disfare l’operato di Obama, così da strappargli simbolicamente il Nobel per la pace, ridefinendone platealmente il significato. Giorni fa, nell’ormai brevettato format di dichiarazioni rese ai media con il rumore dell’elicottero presidenziale in sottofondo, Trump ha denunciato come il nobel sia un privilegio per i soli liberal. In un crescendo di nonsenso, ha poi rivendicato il sommo riconoscimento per il Ruanda, il Congo, la Serbia, il Kosovo, gli accordi di Abramo e soprattutto la guerra India-Pakistan. Nessuno ha capito a cosa si riferisse, con questa sfilza di paesi, e nessuno ha fatto caso alla smentita dell’India stessa, che peraltro ha visto un proprio Rafale abbattuto dalle dotazioni cinesi in mano ai pakistani. Gli stessi pakistani che poi hanno strumentalmente annunciato la loro candidatura di Trump al Nobel, mentre la propaganda cinese ricordava che i paesi ricchi hanno l’aviazione, quelli poveri i missili, e la Cina ha entrambi.
Presentati come un brillante successo tattico, gli attacchi americani hanno subito raccolto il plauso delle destre che scommettono pesantemente sull’opzione militare, oggi assai popolare anche in Europa. Degni di nota, ciascuno per proprio calcolo, Zelenski che approva l’attacco americano, e Medvedev che annuncia molti paesi pronti ad aiutare l’atomica iraniana. I moderati, bontà loro, hanno ripiegato sul consueto invito al negoziato «per evitare l’escalation», senza tuttavia menzionare Israele, il paese che, per dirla con il cancelliere tedesco Merz, «sta facendo il lavoro sporco per tutti noi».
Sarà di certo un gioco da ragazzi, ridisegnare la pace in Medio oriente a partire dalle bombe sull’Iran. Non hanno insegnato nulla venti anni di grande preponderanza militare in Afghanistan per portarci dai Talebani ai Talebani. Su come questi bombardamenti siano portatori di un progetto politico su cui possa reggere un ordine regionale duraturo si registra soprattutto silenzio. Pur feriti, gli ayatollah non mancano di carte, da Hormuz all’Iraq. È ben vero che Russia e Cina, al pari delle petromonarchie arabe, non interverranno in difesa dell’Iran, ma è anche vero che il sud del mondo mostra ogni giorno più insofferenza rispetto alla continua, sfrontata distruzione selettiva dei cardini tradizionali del diritto internazionale. Come ha sostenuto Bertrand Badie su Le Monde, guardando alle ambizioni di regime change in Iran non è possibile escludere l’ennesima riproposizione di uno scenario libico nel quale la capacità di bombardare si accompagna solo all’incapacità di costruire nient’altro che caos.