Nella storia dell’avviso di garanzia a Roberto Occhiuto c’è un convitato di pietra che nessuno nomina ma che pesa come un macigno: Nicola Gratteri. Il mito. Il cacciatore di corrotti. L’Armageddon della ’ndrangheta dei colletti bianchi. Ma in questa storia, più che l’uomo delle retate, appare come il garante silenzioso dell’immobilismo. Un magistrato che, davanti ai fratelli Occhiuto, ha sempre preferito voltarsi dall’altra parte. È lui che per anni ha tenuto in letargo l’inchiesta oggi riesumata dalla procura di Catanzaro. È lui che, pur essendo a conoscenza dei fatti legati alla cosiddetta “Tenuta del Castello”, ha scelto di non muovere un dito. Non perché non potesse. Ma perché, evidentemente, non voleva.
Del resto, Gratteri ha sempre saputo quando intervenire e quando restare fermo. Ha saputo dosare tempi, bersagli, opportunità. E ha dimostrato, più volte, che quando voleva colpire, colpiva. Anche forzando la mano, se necessario. Ma non sempre. Non con tutti.
E allora viene da chiedersi: perché con gli Occhiuto no?
Perché mentre Mario Occhiuto era sindaco di Cosenza e al centro di svariate informative della Guardia di Finanza sull’appalto di piazza Fera-Bilotti, Gratteri non mosse un dito? Quelle stesse informative che, inspiegabilmente, furono ignorate nell’inchiesta Lande desolate, costruita invece su altri nomi — quelli di Oliverio, Adamo, Bruno Bossio — poi assolti. Eppure, in quelle carte, la GdF indicava chiaramente le responsabilità politiche e gestionali dell’allora sindaco Occhiuto. Gratteri lesse tutto. Ma fece finta di nulla. E la stessa cosa ha fatto con il fratello Roberto in questa occasione.
Non è peregrino pensare che Gratteri avesse un “occhio di riguardo” per gli Occhiuto, e questi fatti lo dimostrano.
Non illazioni. Ma atti. Verbali, informative, annotazioni redatte da investigatori e pubblici ministeri incaricati da lui. Era lui a dirigere le indagini, era lui a riceverne i risultati. E se non gli piacevano, li congelava, come nel caso dei fratelli Occhiuto. Con una scusa. O con l’altra. Come ha fatto per il “Sistema Cosenza”: un’inchiesta fatta girare da una scrivania all’altra, da un pm all’altro, fino a essere definitivamente ibernata.
E oggi sulla scena al posto del castigatore dei corrotti compare Salvatore Curcio, attuale procuratore capo di Catanzaro. Non certo un cuor di leone, ma un pavido abituato a muoversi con un profilo basso, e con le dovute coperture politiche. Curcio non ha riaperto l’inchiesta per spirito di giustizia, e fin qui ci siamo arrivati tutti, pure il gatto di zia Maria, ma perché qualcuno, più in alto, glielo ha chiesto. Curcio non è il magistrato del coraggio, è l’uomo delle filiere istituzionali. Quelle vere. Quelle invisibili.
E la domanda è scontata perché ora sì, e prima no?
Di certo non è cambiata la natura del fascicolo. È cambiato il vento per gli Occhiuto. È cambiata la linea di comando. E Curcio, fedele interprete degli umori di Roma, ha solo eseguito. Con la cautela di chi sa che un passo falso può costare la carriera. Con la freddezza di chi sa che la giustizia, in certi ambienti, non è mai una corsa. È un ordine di servizio. Il fatto che, a poche ore dall’esplosione della notizia, nessuno — né Meloni, né Nordio — abbia speso una parola in difesa del governatore calabrese è un segnale chiaro: Occhiuto non è più intoccabile. Può essere sacrificato. Il via libera è arrivato. E Curcio ha semplicemente obbedito. Ma il punto centrale resta: per anni l’inchiesta è rimasta in sonno. Ibernata. Tenuta nel congelatore da una magistratura che ha dimostrato, con i fatti, di sapere benissimo quando e come muoversi. Il caso Occhiuto non è un caso giudiziario, è un caso politico. E Gratteri ne è stato — fino a ieri — il custode silenzioso.
E tra le crepe aperte da questo terremoto giudiziario, spunta un nome che non è affatto secondario: Fausto Orsomarso. Non si tratta solo di togliersi qualche sassolino dalla scarpa: Orsomarso ha capito che questa è l’occasione per rimettere in gioco il suo partito, Fratelli d’Italia, da tempo marginalizzato nella gestione Occhiuto. E in questa nuova partita, l’obiettivo è chiaro: candidare un proprio uomo alla guida della Regione. La guerra non è più sotterranea. È aperta. Da una parte gli Occhiuto sempre più isolati anche in Forza Italia. Dall’altra Fratelli d’Italia, che si muove con pazienza ma determinazione, e che trova nella Lega — silenziosa ma operativa — un alleato tattico. Il caso giudiziario è solo il detonatore.
La posta in gioco è la leadership politica della Calabria. Orsomarso è il volto e il braccio di una delusione politica interna. Trattato come subalterno da Roberto Occhiuto durante il suo periodo da assessore regionale al Turismo, con margini d’azione ridotti e iniziative stoppate sul nascere. È rimasto celebre il caso del decreto da 160mila euro per l’acquisto di gadget promozionali — un atto firmato dal suo dipartimento, revocato in diretta social da Roberto Occhiuto con un post che suonava come una scomunica politica: “la musica è cambiata”.
Un’umiliazione pubblica, seguita dalle dimissioni dei dirigenti e dal gelo istituzionale.
Orsomarso, in un video carico di amarezza, tentò una difesa d’ufficio, ma il danno era fatto. Quella ferita non si è mai rimarginata.
E oggi, mentre il fuoco amico inizia a incenerire la credibilità del governatore, si intravede proprio lui — Fausto Orsomarso — come fuciliere d’eccezione. Non più alleato, ma catalizzatore di un malcontento che da mesi fermenta nelle file del centrodestra. La successione è aperta. Le manovre sono iniziate. Gratteri ha taciuto per anni. Curcio ha agito solo quando ha avuto il permesso. Entrambi hanno scelto il tempo. E ora la resa dei conti è cominciata.










