Calabria, media e potere. L’autocritica di Comito: “Sono stato un vigliacco e ho taciuto tre volte”

SE QUESTO È CORAGGIO

dalla pagina FB di Pietro Comito

Mi dicono che ho avuto coraggio. Mi dicono che ho avuto gli attributi, assieme gli altri che hanno testimoniato fatti che oggi sono oggetto di indagini da parte dell’autorità giudiziaria. Non è così. Non ho avuto coraggio, né attributi. Almeno io. Anzi, sono stato un vigliacco, perché per troppo tempo ho taciuto e sopportato. Ho parlato solo quando sono stato convocato. Ho parlato solo quando l’esasperazione è arrivata al limite.

Soprattutto, sono stato un vigliacco, e ho taciuto, quando assunsi, per tre volte, un ruolo apicale, lasciato di mia iniziativa per ragioni che, sia chiaro, ho messo nero su bianco. Bastava un momento di pace, dai capricci e dalla tracotanza, bastava un sorriso, una buona parola, una pacca sulla spalla, per illudermi che le cose potessero cambiare, abbonando tutto: sono stato uno stupido, qui, oltre che un vile. Perché pensavo, quando avevo la responsabilità di guidare l’intera squadra, che bisognasse per forza cedere qualcosa per ottenere quel minimo di serenità necessario a tutti (prima agli altri, questo almeno lo rivendico con incrollabile orgoglio, poi a me stesso).

C’erano momenti in cui vedevo le cose per come volevo che fossero e non per com’erano davvero, così pieno dell’amore per ciò che facevo e per le persone che avevo accanto. Poi, però, ciclicamente, tornavano a palesarsi nella loro crudele verità. Mi sono perfino speso per difendere il datore di lavoro e l’azienda, con ardimento, perché sentivo fosse comunque mio dovere farlo. Non è servito a niente, perché chi nasce tondo non muore quadrato.

Quando sono stato relegato in un corridoio (in un sottoscala, direbbe Paolo Pollichieni) mi sono concentrato solo sul mio lavoro, provando ad isolarmi dal resto del mondo. Il Grande fratello, e non solo quello, era sempre lì. E continuavo ad ignorarlo. Era il prezzo da pagare per il maledetto bisogno di lavorare. Ma era il prezzo da pagare anche per continuare a condividere il tempo e lo spazio, anche se ammorbati da un un’aria divenuta sempre più tossica, con persone a cui ho sempre voluto un gran bene. Di guerre, all’interno, ne ho fatte però, cazzo se ne ho fatte, fino all’ultimo giorno, ma non sono mai arrivato fino in fondo. Così non sono stato in grado di proteggere nessuno, tanto più me stesso.

Me ne sono andato solo quando, stremato, intossicato e sconfitto, due mie colleghe hanno ricevuto un allucinante provvedimento disciplinare. Lì ho capito che non c’era più niente da fare e che nulla sarebbe mai cambiato in un luogo divenuto per me di sola afflizione.
Non ho avuto affatto coraggio e non ho voluto, né voglio, fare l’eroe. Così come non sono mai stati affatto degli schiavi proni al padrone i colleghi che sono rimasti. Anche di questo sono testimone. Nessuno tra le persone a cui ho voluto bene ha mai scritto a comando. A tutti, non solo a me, però, veniva l’ulcera quando arrivavano certe mail (oh sì, le mail, ributtanti capolavori di sgrammatica e arroganza che, parola d’onore, il Grande fratello a confronto è una bazzecola). Tutti avevano, e lo dico davvero, incrollabili dignità e serietà professionale, instancabili, innamorati del loro lavoro. E la schiena la tenevano dritta.
Come ho fatto quando sono andato via, come ho detto anche recentemente in una intervista video-radiofonica (chi non l’ha vista o ascoltata lo faccia), è a loro, ai miei ex colleghi, che rivolgo la mia stima ed il mio affetto più autentici.