Catanzaro. Ma la Dda c’è o ci fa?

Iniziamo col dire che, ancora oggi, dopo anni di tormenti, continuiamo a chiederci: ma la Dda di Catanzaro c’è o ci fa? Una risposta, purtroppo, non l’abbiamo ancora trovata. Il dilemma non è semplice: i numerosi strafalcioni presenti in quasi ogni inchiesta condotta dalla Dda di Catanzaro, siano essi di natura tecnico-giuridica o investigativa, sono il risultato della scarsa preparazione professionale dei pm che conducono le indagini e redigono gli atti, oppure si tratta di errori volutamente inseriti per creare scappatoie per alcuni e coperture per altri? Questa domanda non nasce dal nulla, ma dall’esperienza maturata attraverso la lettura di centinaia, se non migliaia, di pagine di ordinanze e atti giudiziari prodotti dalla stessa Dda. Le mancanze investigative e gli strafalcioni giuridici sono sotto gli occhi di chiunque si prenda la briga di analizzarli con attenzione. Più di una volta, infatti, ci siamo permessi di segnalare tali incongruenze, come la stessa Dda di Catanzaro ben sa. Tuttavia, le nostre osservazioni non sembrano aver sortito alcun effetto tangibile.

Se tutto questo non fosse sufficiente a giustificare la nostra domanda, basta considerare i numerosi annullamenti di ordinanze da parte del Tribunale del Riesame e della Corte di Cassazione per capire che dietro ogni bocciatura si nascondono sempre gli stessi errori dei pm. Che non è proprio una cosa normale. Infatti, ogni operazione messa in campo dalla Dda di Catanzaro, quasi sistematicamente, subisce pesanti bocciature, basate su motivazioni ricorrenti: “vizi di forma” o carenza di prove a carico degli imputati. In altre parole, emerge una scarsa qualità delle indagini e della preparazione degli atti, che non reggono al vaglio dei gradi superiori di giudizio. E questo si ripete con una certa frequenza, e il sorgere di qualche dubbio sui motivi che inducono i pm a reiterare gli errori e le dimenticanze, è più che legittimo: come mai errori e gravi mancanze investigative continuano a ripetersi, senza che venga mai adottato alcun correttivo significativo? Una possibile risposta potrebbe essere questa: forse non sono i pm che sbagliano ma i giudici che giudicano e annullano le ordinanze perché compiacenti con gli accusati, come potrebbe suggerire una lettura maliziosa. O molto più semplicemente i giudici annullano le ordinanze solo perché riscontrano gravi errori formali e di sostanza. Chi lo sa quale delle due è la risposta più probabile.

C’è poi un’eventualità ancora più inquietante: che in questo continuo valzer di richieste di arresto e bocciature vi sia un uso strumentale della Giustizia. Condiviso da tutti gli attori in scena o proveniente da una sola parte, questo non è dato sapere. Ma qualcosa non torna in questo teatrino di accuse che sembrano mirate su alcuni per coprirne altri. Accuse in molti casi presentate al vaglio dei giudici prive di riscontri oggettivi, quasi a voler trovare un colpevole a tutti i costi, anche quando si è consapevoli della sua innocenza. Gli esempi sono tanti: “Stige”, “Lande Desolate”, “Borderland”, “Farmabusiness”, “Rinascita Scott” (decimata dal Gip, dal Riesame e dalla Cassazione e “rabboccata” con il blitz “Imponimento”). Tutte inchieste in cui, in un modo o nell’altro, i giudici di merito hanno smontato le tesi accusatorie della Dda, soprattutto sui presunti legami tra malapolitica e ‘ndrangheta. Legami che la Dda di Catanzaro ha portato in giudizio con elementi deboli e spesso evidentemente pretestuosi. Così dicono i giudici. E se lo dicono i giudici, diventa lecito chiedersi: i pm della Dda di Catanzaro, visto l’alto numero di bocciature, lo fanno apposta a presentare accuse di collusione e corruzione tra politica e ‘ndrangheta senza prove, oppure sono veramente incompetenti?

E se ancora tutto ciò non bastasse a supportare la domanda “ma la Dda c’è o ci fa?”, aggiungiamo un ultimo esempio che conferma, quantomeno, che i pm della Dda di Catanzaro non imparano nulla dai propri errori. Questo, ad oggi, è un dato certo: nonostante le sonore bocciature e i pesanti flop investigativi, la Dda di Catanzaro continua a commettere sempre gli stessi errori. Il perché e il per come continui a farlo, ancora non lo sappiamo.

Ma veniamo all’esempio: dopo le tante ordinanze annullate nell’operazione “Reset” (1 settembre 2024), la Dda di Catanzaro, decide di compensare le tante scarcerazioni disposte dai giudici in “Reset”, con l’operazione “Recovery” (14 maggio 2024). In molti si aspettavano che, dopo aver colpito i clan, i prossimi a finire in manette sarebbero stati politici corrotti e massoni deviati. E invece, la Dda ritorna sul “pezzo” evidenziando ancora una volta solo l’aspetto prettamente criminale, proponendo ai giudici, come correzione ai tanti errori commessi e dagli stessi evidenziati, un bel copia e incolla delle accuse e delle prove contro gli imputati tratte dall’ordinanza “Reset”, e finite nella nuova operazione rinominata “Recovery”.

Nel “copia e incolla” di “Recovery”, il problema principale della città restano i clan che trafficano droga: niente politica collusa, niente corruzione, niente voto di scambio, nonostante le dichiarazioni di molti pentiti cosentini che parlano di voto di scambio. Dichiarazioni riscontrate, ma che, in questo caso, i pm della Dda hanno ritenuto insufficienti per richiedere custodie cautelari nei confronti di politici cosentini collusi. Qualcuno dirà: hanno imparato dagli errori e non presentano accuse senza prove solide. Ci sta. Ma questo cozza con il metodo utilizzato in altre inchieste: vedi il caso di Mario Oliverio, Nicola Adamo, Enza Bruno Bossio, Francesco De Cicco, Pasquale Motta, Vittorio Palermo. Tutti accusati senza prove. Così dicono i giudici di merito, che hanno definito alcune inchieste prive di fondamento e pretestuose. Come spiegare allora questo doppio standard? Perché, nel caso del voto di scambio a Cosenza, i pm si fanno tanti scrupoli sulla solidità delle prove, mentre in altri casi lanciano accuse inconsistenti e anche inventate?

E le domande, quando non si hanno risposte, continuano a sorgere spontanee: a quale necessità o salto di qualità investigativo risponde il  copia e incolla messo in atto dai pm della Dda di Catanzaro da “Reset” a “Recovery”? Una domanda a cui non è facile dare una risposta. Ma ne azzardiamo una: forse perché tutta la città si aspettava una continuazione dell’operazione pulizia a tutti i livelli, accennata in “Reset”, e non potendo agire sul voto di scambio politico mafioso, hanno pensato bene di mettere in scena “l’operazione finale” per placare l’opinione pubblica da tempo in fervida attesa di nuovi  e ben più importanti arresti. Se così fosse il messaggio che ci sta dietro l’operazione “Recovery” diventa chiaro: con questa operazione la città è stata ripulita e, oltre agli arrestati, non ci sono altri criminali in circolazione.

Perciò non aspettatevi altri arresti. E per fare questo, hanno copiato e incollato materiale probatorio da una ordinanza all’altra, senza curarsi di commettere un grave errore. Errore che non è sfuggito alle difese, le quali hanno evidenziato come molte intercettazioni e atti presenti nell’ordinanza “Recovery” riportassero lo stesso numero di registro generale delle notizie di reato (RGNR) di “Reset”. I giudici, nell’annullare molte ordinanze, hanno ribadito l’assenza di elementi nuovi tali da giustificare una nuova misura cautelare, rendendo quindi applicabile il principio della retrodatazione.

In sostanza, i pm hanno riformulato a molti imputati in “Recovery” le stesse accuse già formalizzate nel procedimento “Reset”, utilizzando lo stesso materiale. Un errore grossolano che un PM antimafia non può commettere. Eppure è successo, e  come abbiamo visto non è la prima volta. Solo l’incompetenza, o la consapevolezza di commettere un errore, possono giustificare una così scarsa professionalità. Ed è per questo che la domanda principale a cui rispondere resta: ma la Dda di Catanzaro c’è o ci fa?