Cetraro e il clan Muto: una storia raccontata a metà

Ogni volta che vedo la foto di Franco Muto o sento parlare del re del pesce non posso fare a meno di pensare a Giannino Losardo. E questo pensiero è ritornato fortissimo da qualche ora, cioè da quando abbiamo appreso della scarcerazione del boss. Così com’era stato forte dalla tarda primavera del 2021, quando la Corte d’Appello di Catanzaro ha in parte riparato all’assurdità giudiziaria della clamorosa assoluzione del Tribunale di Paola dell’estate del 2019 condannando il boss a 20 anni per associazione mafiosa. E anche e certamente di più nel 2020 in occasione del 40° anniversario dal l’omicidio di Losardo ma era già forte da qualche mese prima, da quando avevamo appreso che il boss non solo era stato assolto ma era anche tornato a casa dopo appena tre anni di carcere “per legge” come dicono i suoi avvocati (tra i quali Luigino Gullo, alias “Gulletta”, quello che fa assolvere i boss con le mazzette) o “per le sue condizioni di salute” come afferma qualcun altro anche oggi.

Una grande città, come quella ideale rappresentata da Cosenza e provincia, non può non conoscere la sua storia, anche se non è stata scritta sui libri dell’antimafia a chiacchiera che abbiamo. Piazzisti più che giornalisti…

E’ dall’omicidio di Giannino Losardo che è diventato palese a tutti il patto tra lo stato deviato e Franco Muto.

Giannino Losardo

Da anni il Pd – o quello che ne rimane – ha anche il barbaro coraggio di celebrare il premio Losardo, fa passerella ricordando il sacrificio dell’ex vicesindaco di Cetraro e segretario capo della procura di Paola ma non vede mai che al suo interno ci sono affiliati al clan come don Magorno (anche se ora se ne va con Renzi o addirittura con Salvini ma fa lo stesso…) e Madame Fifì che si sono fatti finanziare per anni – nella migliore delle ipotesi – dagli scagnozzi del boss. E ovviamente non cerca mai di risolvere uno dei più miseri Cold Case della nostra storia.Un uomo onesto e coraggioso eliminato dal clan in combutta con chi tremava per essere smascherato. Una storia che è finita insabbiata e con la quale il clan Muto ha consacrato il suo impero criminale.

E’ da anni ormai che postiamo articoli che ripercorrono il mito criminale di Cetraro e del clan Muto, gli intrecci con la procura della Repubblica di Cosenza, l’epopea de “La Perla”, il night del porto dove criminali e magistrati siglavano il loro patto d’acciaio. Come potete chiederci di dimenticare?

E così dobbiamo sentir dire a magistrati di un certo spessore che il clan Muto ha governato incontrastato negli anni e sottolineare più volte che non è mai cambiato nulla. Ma se non abbiamo memoria non abbiamo futuro e se guardiamo con un solo occhio, alla fine diventiamo strabici. E non possiamo permettercelo.

Mi dispiace di aver “rovinato” la conferenza stampa di luglio 2016 al procuratore aggiunto Vincenzo Luberto (oggi in bassa fortuna e disgrazia ma che all’epoca troneggiava insieme a Gratteri e a Bombardieri), che è cosentino e conosce la storia e non può venirci a raccontare fregnacce. Nessuno gli disconosce il merito di aver lavorato a fondo sul clan Muto. Si devono a lui le sentenze del 2006, che poi non sono state clamorosamente applicate dagli amministratori giudiziari per le aziende confiscate e dalle istituzioni che avrebbero dovuto chiedere i soldi delle costituzioni di parte civile al clan.

E’ stato un passo avanti ma troppo piccolo per poter capire nella sua interezza il fenomeno del clan Muto. Che è tutto quello che sappiamo: il pescato, la droga, le lavanderie, i locali notturni, riciclaggio a livelli assoluti di denaro sporco con banche compiacenti. Ma che è fatto anche di altri livelli ben più importanti di connivenza. Come hanno cercato di dirci arrestando l’imprenditore Barbieri e dicendoci che Muto comanda anche a Cosenza. Come se avessero scoperto l’acqua calda… Salvo poi assolvere sia Barbieri sia Muto affermando con una faccia tosta che non conosce confini che loro con la mafia non c’entrano. 

Luberto all’epoca diceva che si fidava solo degli atti processuali (ccuri cazzi diciamo a Cusenza…) ma non può chiudere gli occhi e far finta che non sia mai esistita una serie di poteri forti al servizio della criminalità di Cetraro. Perché quando i magistrati dicono che non è cambiato nulla, hanno ragione.

Ma non ci spiegano mai quello che è successo prima. Forse perché dovrebbero arrestare o quantomeno indagare decine di loro colleghi (anche se adesso sono vecchi e cadenti) e dimostrare che molti giudici passati a miglior vita erano corrotti fino al midollo? Non bisogna aver paura della verità. Tanto, prima o poi, viene sempre a galla. Anche se adesso il boss è tornato a casa…

g. c.