Chiamatelo “Southworking”. Le storie di chi resta al Sud (anche dopo l’estate) per ridurre le spese

“Non sento la mancanza della metro, qui ho la mia famiglia”. Ilaria è una internal auditor che lavora per Operari, una società di consulenza milanese. Durante il lockdown ha lavorato in smart working vivendo da sola a Milano. Da fine maggio però, lo “smart working” si è trasformato in “Southworking” ed è potuta tornare nella sua regione d’origine, la Calabria grazie anche a un contributo per il viaggio offerto dalla sua azienda. Anche la sua collega Marta è tornata in Sicilia. Qui ha ritrovato gli affetti e anche il mare. “Può sembrare banale ma non lo è”. Il tutto si traduce in un aumento della “qualità della vita e del lavoro”. Entrambe fanno parte di quei lavoratori e studenti che, sfruttando le opportunità dello smartworking, sono tornati al sud durante il lockdown e ora ipotizzano di restarci se l’azienda glielo consentirà.

Una visione condivisa anche da Saverio, financial advisor, per un gruppo bancario con sede a Milano. “Il vantaggio più grande è stato quello di ritrovare amici e parenti che per via della lontananza vedevamo sempre poco”. E poi c’è la questione economica. “Lavorare da casa permetterebbe di abbandonare le spese dell’affitto che equivalgono quasi alla metà stipendio” racconta Marta che però non ha lasciato la propria casa a Milano, perché a settembre tornerà a lavorare al Nord. Gli unici svantaggi? Per Ilaria “la difficoltà da junior di non potersi confrontare quotidianamente con i colleghi più esperti”. Gli altri servizi sono sostituiti dal “welfare familiare”.

Biglietto di sola andata. Quello che per tanti era sogno, o almeno desiderio, per qualcuno sta diventando realtà, grazie alle modifiche che la pandemia ha imposto al mondo del lavoro. Da qualche tempo si è iniziato a parlare di “Southworking”, il lavoro al Sud, o meglio dal Sud. Schiere di professionisti, lavoratori e studenti che, dalle città del Nord, sono rientrati nelle terre d’origine e qui ora decidono di fermarsi grazie alla possibilità di lavorare a distanza. Stesso reddito, calato in un contesto dove il costo della vita è più basso. Un esodo di ritorno che comporta vantaggi anche per tutto “l’indotto” che ruota attorno al lavoratore: immobiliare, bar, ristoranti, palestre, servizi alla persona e quant’altro. Qualcosa di più di una semplice ipotesi, visto che nelle città del Nord, in vista dei rientri e della ripresa di settembre, si registrano le prime disdette di affitti e si levano le prime voci d’allarme.

L’allarme che suona al Nord – “In questo momento, è difficile calcolare una perdita media del comparto in città, perché ogni quartiere fa storia a sé”, ha spiegato Carlo Squeri, segretario generale di Epam-Confcommercio. “In pieno centro, la perdita di fatturato per alcuni locali si può misurare nell’ordine del 75% e la situazione peggiore è legata alle attività diurne, proprio perché gli uffici sono chiusi e i dipendenti non escono a pranzo”. “Milano era una città nella quale circolavano tre milioni di persone al giorno, il doppio dei suoi abitanti”, ricorda il segretario di Epam. Oggi la città è dei milanesi, non dei turisti e non degli uomini d’affari. E nemmeno degli studenti, come appare chiaramente per chi si trova a frequentare quartieri come Città Studi. Un’assenza, quella dei fuori sede, che colpisce il settore della ristorazione non solo per quanto riguarda i mancati incassi, ma anche per l’offerta di lavoro, visto che lo studente che condivideva un appartamento in affitto era un target ideale a cui attingere per ristoranti, bar e locali notturni come collaboratore più o meno occasionale. Quello che sta capitando a Milano non è ovviamente isolato anche se in Italia è la città più colpita dal ‘Southworking’. Fonte: Il Fatto Quotidiano