La storia che stiamo per raccontare potrebbe sembrare il caso isolato di un cittadino truffato. Ma per noi non lo è. È la punta dell’iceberg. Un frammento visibile di una macchina più grande, più sporca, e probabilmente ben organizzata. Dietro la vicenda di uno studente cosentino, improvvisamente precipitato in un incubo fiscale kafkiano, si intravede l’ombra di una banda strutturata, capace di usare il sistema tributario italiano come una cassaforte da scassinare con metodo. E da tempo.
Qualcuno, infatti, ha presentato un modello 730 a nome suo, dichiarando un reddito di 12.345 euro per l’anno 2020. Eppure quello studente non aveva alcun reddito. Era iscritto all’università, fiscalmente a carico dei genitori. Non aveva presentato nulla, non aveva lavorato, non aveva incassato neanche un euro. Eppure, per lo Stato, quel 730 era autentico. L’Agenzia delle Entrate lo ha acquisito, registrato, approvato. E ha perfino liquidato le somme a un soggetto ignoto, scambiandolo per il contribuente reale. Nessuna verifica. Nessun controllo. Nessuna telefonata.
Quando lo studente e la sua famiglia si sono accorti della truffa, hanno fatto quello che ogni cittadino dovrebbe fare: hanno scritto, denunciato, allegato documenti, si sono rivolti alla Guardia di Finanza. Hanno ricostruito la loro posizione. Ma dall’altra parte hanno trovato solo il silenzio. L’Agenzia, messa di fronte a un errore palese, si è limitata a registrare la segnalazione. Nessuna indagine interna. Nessuna richiesta di verifica sulle credenziali usate per l’invio. Nessun tentativo di capire dove siano finiti i soldi. Nessuna volontà di risalire al vero autore della frode.
Ma c’è di più. Il cittadino vessato, nonostante tutto questo, non si è arreso. Ha presentato ricorsi, esposti, PEC, fino ad arrivare a un telegramma indirizzato direttamente alla direttrice dell’Agenzia delle Entrate, la dottoressa Graziella Platì, chiedendo spiegazioni, aiuto, un segnale di giustizia. Risultato: nessuna risposta. Nessun chiarimento. Nessuna assunzione di responsabilità da parte di nessuna istituzione coinvolta. Nessuna voce, nemmeno per dire “abbiamo ricevuto”.
E allora si pone una domanda inevitabile, drammatica, corrosiva: qual è il ruolo del cittadino in questo Stato? È solo un numero fiscale, un contenitore utile per pagare imposte, tributi e multe, vere o presunte, oppure è anche una persona, titolare di diritti, che la pubblica amministrazione ha il dovere di riconoscere, ascoltare, proteggere? Perché se lo Stato si limita a incassare e a ignorare, allora il patto tra cittadino e istituzioni è già rotto.
Questa non è solo una truffa ben congegnata. È l’effetto di un sistema spalancato all’abuso. Bastano pochi dati personali per far partire una dichiarazione fiscale. I numeri inseriti non devono avere un riscontro. I controlli sono formali, mai sostanziali. Nessuno si accorge se il reddito è fittizio, se il beneficiario è un altro, se il contribuente è inconsapevole. È evidente che chi ha colpito questo studente sapeva dove mettere le mani. Aveva accesso a informazioni riservate. Conosceva i codici. Ha operato con sicurezza, sapendo che nessuno l’avrebbe fermato. E viene spontaneo pensare che dietro ci sia qualcuno all’interno del sistema. Un dipendente infedele, forse. O più di uno. Qualcuno che passa i dati, li maneggia, li altera. E poi copre la truffa, rendendola invisibile tra le pieghe della burocrazia digitale.
Intanto, lo studente si trova in una situazione grottesca. Lo Stato ha creduto a un documento falso, ha pagato un truffatore, e ora chiede a lui di restituire i soldi. Perché sulla carta, quel reddito è suo. E se non si dimostra il contrario, a pagare sarà proprio la vittima. Non l’autore della frode. Non il complice interno. Non chi ha incassato. Ma il cittadino onesto.
La domanda, allora, è inevitabile: quanti altri casi come questo esistono in Italia? Quante altre identità sono state usate allo stesso modo? Quante volte lo Stato ha versato denaro pubblico a truffatori anonimi, senza accorgersi di nulla? E soprattutto: quanto è esteso l’iceberg che oggi vediamo solo nella sua punta?
La vicenda di questo studente calabrese non è solo un errore. È la fotografia brutale di un sistema che non funziona. Dove la verità non conta. Dove chi denuncia non viene ascoltato. Dove la burocrazia non chiede mai scusa. Dove chi ruba incassa e scompare, e chi subisce deve pagare.









