Cosenza. Antonio vittima di una sciagurata e incompetente “operazione di polizia”

Antonio Ruperti non festeggerà mai i suoi 18 anni. Resterà per sempre un “ragazzo minorenne”. Antonio non ce l’ha fatta. Le gravi ferite riportate nel violento impatto tra la moto che guidava e un’auto civetta della polizia, non gli hanno lasciato scampo. I suoi giovani sogni si sono schiantati contro un muro. Antonio non sognerà mai più. Finisce su un letto di ospedale la sua breve vita. Una fine tragica che lascia nello sgomento assoluto i genitori, i parenti, gli amici, e l’intera città di Cosenza: la morte di un giovane figlio è un immenso e profondo dolore che non va più via. Non esiste conforto che possa lenire lo strazio dell’anima. E non c’è rassegnazione che possa cancellare l’ossessione di chiedersi, pensando alla sua giovane età, se la tragedia si sarebbe potuta evitare. E noi ce lo chiediamo: la morte di Antonio è stata solo una fatalità, o c’entra anche la negligenza, l’impreparazione, l’avventatezza dei tre poliziotti che erano a bordo dell’auto?

Cominciamo col dire che quello che è successo ad Antonio non è ascrivibile, e non può essere trattato, come un imprevedibile incidente stradale. Per quanto possa apparire tale, Antonio si è trovato, suo malgrado, nel bel mezzo di un’operazione di polizia, e la presenza dell’auto civetta in quella zona non è certo imputabile al fato, o ad una tragica coincidenza. L’impatto tra la moto e l’auto civetta (una Jeep Renegade bianca) è la conseguenza di un “intervento di polizia” o se preferite di un “inseguimento” o se preferite ancora di un “appostamento” che per poca professionalità, è andato storto. A chiarire la dinamica del “sinistro” saranno le telecamere che hanno ripreso lo scontro tra l’auto civetta e la moto, che sono già state acquisite dalla procura che sul caso ha aperto un fascicolo, anche se, stando a diverse testimonianze oculari, una sommaria ricostruzione si può formulare.

Antonio, a bordo di una Aprilia Pegaso di grossa cilindrata (650), a forte velocità imbocca, proveniente da via Panebianco, via Falvo. I testimoni riferiscono di ave visto la moto guidata da un ragazzo con il casco, percorrere via Falvo a forte velocità fino all’incrocio con via Martorelli, da dove è sbucata l’auto civetta che lo ha preso in pieno. E lo dimostra l’ammaccatura dell’auto civetta circoscritta al paraurti anteriore, il “muso” dell’auto, che può essere solo stata provocata da un impatto con il fianco della moto proveniente da via Falvo direzione via Mortati. Volevano forse bloccarlo, ostruendogli il passaggio, e invece l’hanno speronato. Saranno gli accertamenti a chiarire se c’è stata intenzionalità dell’auto civetta di speronare la moto, ma già adesso si può parlare di una manovra precipitosa e azzardata durante un’operazione di polizia, magari dovuta a comunicazioni di servizio “arrunzate” e alla scarsa professionalità.

Sono tre, come abbiamo accennato, i poliziotti incaricati di eseguire questa singolare operazione. I più “esperti” si chiamano Carelli e Pignataro ma a quanto pare nessuno dei due era alla guida della Jeep. Il conducente sarebbe stato invece un loro giovane collega del quale ancora adesso non si conosce il nome ma solo per questione di ore. 

L’urto fa sbandare la moto, e la corsa si ferma bruscamente con la ruota anteriore che impatta e si “inchioda” contro l’alto bordo del marciapiede. Lo stop violento fa ribaltare la moto, e nella terribile capriola che compie, Antonio, nello sbalzo, finisce violentemente contro il muro. E la moto, terminato il “giro della morte”, rovina sul marciapiede con la ruota anteriore in posizione contraria a quella di provenienza. L’auto civetta che percorre via Martorelli non è lì per “caso”, ma perché impegnata proprio nella ricerca della moto, che è di proprietà di un soggetto, Valentino De Francesco, sul quale qualcuno (ancora non sappiamo chi) ha deciso di indagare. 

Forse i tre poliziotti avevano ricevuto l’ordine di fermare la moto sfuggita a qualche “controllo”, e nella foga di rendersi operativi i soggetti non hanno valutato bene le modalità del loro intervento, finendo con lo speronare la moto. E se – forse – è stato l’amaro destino a farli scontrare, non è certo imputabile al fato la loro presenza a Torre Alta. Non si sono preoccupati, nell’intervento, di tutelare l’incolumità del pedinato e anche dei cittadini. Si sono lanciati all’inseguimento senza calcolare i rischi che comporta muoversi, senza sirene e paletta, in un popoloso quartiere popolare come Torre Alta. Un intervento di polizia di questo tipo richiede preparazione e competenze che i tre in auto non hanno dimostrato. Ecco perché la morte di Antonio non può essere trattata come un imprevedibile incidente stradale. In discussione non c’è la fatalità dello scontro ma la preparazione e la professionalità di chi è chiamato ad operare per la sicurezza dei cittadini. Anche di quelli “attenzionati”.

In questa tragica vicenda ci sono delle precise responsabilità che qualcuno dovrà assumersi. Lo stesso qualcuno che dovrà spiegare il perché personale di polizia senza nessuna competenza “operativa” è stato autorizzato ad intervenire in un inseguimento. Se è stato autorizzato. Altrimenti dovrà spiegare il perché di un inseguimento non autorizzato. I genitori di Antonio hanno diritto alla verità. Che non può essere ancora una volta insabbiata. Ecco, il questore, magari, o qualche altro “campione” della procura di Cpsenza o addirittura della Dda di Catanzaro prima di andare via potrebbe dire tutta la verità, nient’ altro che verità, sulla morte di Antonio. E affermare, per una volta, che anche in questa città la legge deve essere uguale per tutti.

Alla famiglia di Antonio le nostre più sentite condoglianze.