di Laura De Franco
Nella settimana scorsa diversi media hanno dato notizia di cinque casi di autolesionismo, che si sono verificati in una scuola media del cosentino, quattro all’interno della stessa classe. Si tratta di ragazzi tra i 12 e i 14 anni che hanno praticato il “cutting”, nuova frontiera dell’autolesionismo giovanile, usando lamette, vetri e lattine per prodursi ferite su braccia e gambe e poi postare la foto sui social. Se n’è accorta una professoressa, insospettita da alcune battute tra studenti e dalle ferite sulle braccia di alcune ragazze. Secondo quanto riferito dall’Ansa, si tratterebbe di gesti non indotti da altri ma attuati volontariamente dai ragazzini come una sorta di prova di coraggio.
Autolesionismo in classe a Cosenza, dunque. Forse è arrivato il momento di farci delle domande anche senza darci le risposte, che tanto arrivano da sole. Intanto Chiara Scazziota, pedagogista dell’Asl, invita a chiamare le forze dell’ordine lì dove le pratiche autolesive sono di gruppo.
Eppure l’accusa di istigazione dovrebbe essere una eventualitá remota, così come accade per il bullismo, invece per i più sembra essere ormai l’unica strategia adottabile. Allora, se a questo arriviamo, chiamiamoci falliti. A nulla servono le campagne di sensibilizzazione, le “chiacchierate” con i ragazzi se, quotidianamente, il modello che si propone è il disimpegno relazionale. Per il vuoto emotivo degli adulti la naturale contropartita per gli adolescenti è l’ intervento psichiatrico o la repressione carceraria. Mentre genitori e insegnanti continueranno con i loro calmanti assunti dopo i pasti.