Se Vibo e Catanzaro pullulano di massomafiosi così come apprendiamo dalle cronache giudiziarie degli ultimi mesi (per tanti la scoperta dell’acqua calda), non è che a Cosenza e Rende, sempre sulla presenza massomafiosa, si “cugliunia” (non sono da meno). Se è vero, com’è vero, che a Vibo esiste il più alto numero di logge massoniche segrete d’Italia, è anche vero che a Cosenza e Rende la “qualità” e la potenza dei massomafiosi è di un altro livello.
E la differenza salta agli occhi (di chi vuole vedere): a Vibo e Catanzaro, seppur dopo una strenua lotta, alla fine molti “fratelli sono caduti” nella rete di Gratteri che con l’operazione “Rinascita Scott” ha quasi totalmente smantellato l’apparato massomafioso a quelle latitudini; mentre a Cosenza, a parità di pericolosità sociale e di reati commessi (se non di più), mai nessun fratello è finito dietro le sbarre. Eppure quello che succede a Cosenza, in merito agli intrallazzi massomafiosi, non solo risulta grave sotto il profilo penale, ma contribuisce a rendere condivisa e accettata, l’idea poco democratica, che la Legge a Cosenza non è uguale per tutti. C’è chi può e chi non può, è questa la rappresentazione dello stato in città. Uno stato che a Cosenza diventa, palesemente, parallelo a quello “ufficiale”. Come se Cosenza fosse uno “città stato” con regole e leggi proprie, accettate dal “potere centrale”, diverse da quelle applicate su tutto il territorio nazionale. Una città a “statuto massomafioso speciale”.
In poche parole, i rappresentanti dello stato in città e della società civile, come il prefetto, i vertici delle forze dell’ordine, giudici e procuratori, imprenditori e professionisti, e ovviamente tutto il potere politico, più che rappresentare lo stato e le categorie professionali a cui appartengono nelle more della Legge e della Costituzione, preferiscono porsi ed adoperarsi, dietro lauto compenso, a difesa degli interessi economici dei fratelli, garantendo loro l’immunità sociale e giudiziaria. Immunità e coperture che a Vibo e Catanzaro sono saltate, mentre a Cosenza non solo resistono, ma non sono mai state neanche intaccate.
Per meglio comprendere dove sta la differenza tra Cosenza e il resto della Calabria, basta ricordare le parole pronunciate in una delle tante audizioni tenute in commissione antimafia dell’allora super prefetto di Reggio Calabria, Lugi De Sena (morto nel 2015), dove, senza giri di parole, il superpoliziotto racconta di una Cosenza eletta, dal potere massomafioso romano su richiesta dei fratelli cosentini, a “zona franca”, al pari del territorio svizzero quando si tratta di questioni bancarie. Cosenza era, e continua ad essere, il “centro di smistamento e riciclaggio” dei tanti proventi illeciti della masso-’ndrangheta. E questo lo si capisce, spiegava il prefetto, per due ordini di motivi, il primo: la sproporzionata presenza di sportelli bancari a Cosenza, città dove l’unica grande industria è lo stato, e il loro continuo via vai. A Cosenza le banche aprono e chiudono alla velocità della luce con uno scopo ben preciso: rastrellare tutto il denaro illecito possibile, ripulirlo, e poi chiudere per ritornare alla sede centrale. E il perché proprio a Cosenza è presto detto: l’importante è commettere il reato a Cosenza, dove la procura, competente per territorio, garantisce, più che in altre parti della Calabria, e anche D’Italia, che nessuno ficcherà il naso nelle “carte bancarie dei fratelli”. Come succede in Svizzera, appunto!
Il secondo motivo: il fu senatore De Sena, per meglio rappresentare la situazione, fece un esempio concreto: a Cosenza esistono diversi studi professionali, che gestiscono decine e decine di società che per lo più incassano denaro da “contributi europei”. In uno studio, in particolare, risultavano avere sede legale decine di società che avevano a che fare con ingenti finanziamenti europei. Anche qui, la scelta fisica di Cosenza non è casuale: solo la procura cittadina, e nessun’altra procura italiana, tranne la Dda di Catanzaro, può aprire una inchiesta su eventuali “truffe” ai danni dello stato o della comunità europea, cosa che ovviamente nella giurisdizione della procura cittadina non è mai successa. Il paradiso per i truffatori seriali di fondi pubblici e per i ladroni di stato. Più prova di così si muore.
Ma non finiscono qui le prove a dimostrazione della presenza, e dell’esistenza in città di una cupola massomafiosa che ha garantito e continua a garantire immunità e protezione a tutti gli amici degli amici che ne hanno bisogno. Gli esempi concreti non mancano e sono sotto gli occhi di tutti (sempre per chi li tiene aperti e vuole vederci chiaro). Partiamo dalla sanità che è l’osso più spolpato da tutti: nessuno riesce a quantificare il debito accumulato dall’ Azienda sanitaria cosentina, negli ultimi vent’anni. Si ipotizza che il debito “oscilli” tra i seicento milioni e il miliardo di euro. Il che significa che per oltre 20 anni i “responsabili” della sanità cosentina hanno presentato bilanci truccati, il tutto nell’indifferenza della procura cosentina che non ha mai agito nei confronti di una situazione di totale illegalità diventata da tanto tempo di pubblico dominio. A Catanzaro e Reggio Calabria, che presentano la stessa tragica situazione di Cosenza, le aziende sanitarie sono state sciolte per infiltrazioni mafiose, quella cosentina no! Se non è questa la prova del potere dei fratelli cosentini…
Un altro aspetto che fa capire ancora meglio il grave livello di corruzione raggiunto nella pubblica amministrazione cosentina, a conferma dell’esistenza di uno “stato parallelo” in città, è la totale impunità di cui godono da sempre conclamati ladroni politici che ostentano la loro lercia ricchezza senza pudore o timore di qualche azione giudiziaria. Sanno di essere intoccabili, perché il denaro può tutto, e a Cosenza gira talmente tanto denaro che nessuno può dirsi immune dall’essere corrotto. Tutti hanno un prezzo, e poi a Cosenza, ripetiamolo, non si corrono rischi di natura giudiziaria. E per fare un esempio concreto, restando nell’analisi degli ultimi 20 anni, basta ricordare che Cosenza è una città fallita con un buco che si aggira attorno ai 300 milioni di euro. Denaro per la maggior parte finito nelle tasche di politici, ‘ndranghetisti, prenditori di denaro pubblico e massoni deviati. Le prove di tutto questo? Le migliaia e migliaia di determine dirigenziali truccate, emesse dall’ufficio tecnico, e non solo, del comune di Cosenza.
In una sola notte (alla vigilia di un caldo ferragosto del 2012) l’ufficio tecnico sfornò quasi 50 determine di interventi di somma urgenza e cottimi fiduciari, per lo più atti retrodatati e fittizi. Giusto per dirne una. È da oltre un ventennio che negli uffici comunali si consumano palesi violazioni della legge sugli appalti, una prassi illegale, mai sanzionata dalla procura, e assunta dalla burocrazia comunale come “prassi ordinaria”. In altre città d’Italia per molto meno, basta a volte anche una sola determina taroccata di poche migliaia di euro, tanti sindaci sono finiti dietro le sbarre (vedi ad esempio il tirreno cosentino), mentre il sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto, un bancarottiere conclamato, è ancora incollato alla poltrona.
Non meno grave, e altrettanto impunito, l’aspetto che riguarda la collusione tra la politica e le ‘ndrine locali. Sempre un esempio concreto: a Rende esiste l’unico esempio al mondo dove il sindaco/avvocato ripreso dalle telecamere della finanza mentre corrompe, con una bustarella farcita, il giudice Petrini, per assolvere un mafioso condannato a 30 per omicidio, non subisce alcuna sanzione giudiziaria. Nonostante la schiacciante prova, l’avvocato/sindaco Marcello Manna continua, senza nessun tipo di problema, ad esercitare la professione di sindaco in quel di Rende, nonché la nobile professione di avvocato. Se un fatto così nitido e chiaro di corruzione fosse successo a Modena, ma anche a Pisa, Matera, o Lecce, il sindaco/avvocato, sarebbe finito dritto in cella senza passare dal via. A Cosenza no. Se non è questa un’altra espressione della potenza massomafiosa cosentina, anche qui, diteci voi cos’è?
Se poi a questo ci aggiungiamo che la parola dei pentiti vale solo se i nomi che fanno non sono di Cosenza, questo chiude completamente il cerchio, sulla potenza massomafiosa cosentina. Infatti sia Manna che Occhiuto sono chiamati in correità in storie di voto di scambio, da tanti pentiti, su tutti Adolfo Foggetti e Daniele Lamanna, che risultano credibili su tutto tranne che sui politici cosentini chiamati in causa. Di più: quello che dice, ad esempio, il pentito Mantella nel processo Rinascita Scott, nelle sue chiamate in correità dei colletti bianchi, risulta credibile solo se i correi risiedono ed operano fuori dai confini di Cosenza. La massomafia e la corruzione esistono in ogni angolo della Calabria, tranne che a Cosenza. Se non è questa un’altra prova delle pesanti coperture di cui godono i fratelli cosentini, diteci voi…
Del resto esistono, a prova di quello che scriviamo, diversi tentativi falliti di mettere in atto una operazione giudiziaria contro la massomafia cosentina. Sempre con un esempio concreto: la prima inchiesta sul “Sistema Cosenza” è stata condotta dall’allora pm della Dda di Catanzaro, Pierpaolo Bruni, magicamente trasferito, quando aveva deciso di entrare in azione su Cosenza, dopo aver già agito a Castrolibero e Rende, a guidare la procura di Paola. Inchiesta raccolta in “eredità” dal collega l’allora pm antimafia Camillo Falvo, anch’esso, magicamente trasferito a guidare la procura di Vibo. Noi abbiamo smesso di credere alle coincidenza all’età di 12 anni. Non sappiamo voi. All’oggi di questa inchiesta non si hanno più notizie, e quel poco che riesce a circolare continua a parlare il linguaggio dell’insabbiamento. E ci fermiamo qui…
Cosenza, insomma, risulta, ancora, essere la cassaforte del denaro massomafioso ed è per questo che è ben protetta e ben controllata. Diceva Falcone: la mafia si sconfigge solo quando lo stato sequestrerà tutto il denaro ai mafiosi illecitamente accumulato. E sappiamo che fine ha fatto. Neanche Gratteri può niente contro tale potenza. E lo confermano i fatti, le sue azioni di repressione si fermano sempre ai confini di Cosenza. Del resto è stato lo stesso Gratteri ad ammetterlo. Durante uno dei suoi tanti colloqui con coraggiosi imprenditori cosentini disposti a denunciare il pizzo e la corruzione che gli chiedevano come mai Cosenza non è mai toccata da inchieste antimafia, rispose: “se a Vibo e Catanzaro esiste una masso – ‘ndrangheta di serie A, quella cosentina è da Champions League”.