Cosenza, il carcere e la mafia: l’omicidio di Sergio Cosmai, la pace tra i clan e lo stato che “salva” gli assassini

Sergio Cosmai

Sergio Cosmai, direttore della casa circondariale di Cosenza, perse tragicamente la vita in seguito all’agguato subito esattamente 38 anni fa, il 13 marzo 1985, per le conseguenze dell’agguato tesogli dai clan cosentini qualche ora prima, mentre si stava recando a prendere la figlioletta che si trovava in una scuola materna. Sergio Cosmai era un uomo delle istituzioni e di sport, maestro di zelo e senso civico, esempio di solidarietà e di generosità nelle relazioni umane. 

L’omicidio di Cosmai ha segnato una pagina di storia importante a Cosenza e poiché, per fortuna, abbiamo ancora memoria, non possiamo fare altro che ricordare in che contesto avvenne quel grave delitto e soprattutto l’inqualificabile maniera con la quale lo stato (la esse è volutamente minuscola) lasciò sostanzialmente impuniti gli autori di quell’efferato omicidio. 

1985 – L’OMICIDIO DI SERGIO COSMAI

“… Da una parte il clan Pino-Sena, ostile nei confronti di “ ’U Zorru” e responsabile della sua morte e dall’altra la cosca capeggiata da Franco Perna, rimasto fedele al vecchio boss per il quale stravedeva. I due schieramenti si fronteggiano in una lotta spietata per il controllo del territorio. Lo Stato tenta di reagire alla mattanza.

Il sistema carcerario costituiva uno degli strumenti dello Stato che doveva neutralizzare tale violenza. Tuttavia gli esponenti delle due bande godevano di piccoli e grandi privilegi anche dietro le sbarre, in particolare i mammasantissima. Un fenomeno riprovevole ma molto diffuso in tutta la penisola e soprattutto al Sud.

Il vecchio carcere di Cosenza era a Colle Triglio, nel centro storico. Non aveva le mura di cinta e le celle si affacciavano sulla strada, permettendo il collegamento con l’esterno. All’inizio degli anni Ottanta a Cosenza era in pieno svolgimento la cosiddetta prima guerra di mafia tra i clan Pino-Sena e Perna-Pranno e gli agguati all’interno del carcere erano diventati una costante. Il 27 agosto 1980 le cronache registrano l’omicidio di Carlo Mazzei, un ragazzo di 23 anni, e il ferimento di Salvatore Pati nel vecchio carcere di Colle Triglio. Mazzei viene ucciso nella cella numero 11 del penitenziario, dove si trova in compagnia di Nicola Notargiacomo e Salvatore Pati. Un commando, composto da cinque persone, fa irruzione nella cella. Notargiacomo non viene sfiorato, mentre Pati rimane ferito da un fendente ma riesce a salvarsi proteggendosi il corpo con il materasso della branda.
Mazzei, invece, è ammazzato con nove coltellate vibrate in varie parti del corpo. L’eliminazione del ventitreenne – secondo quanto riferito dai collaboratori Roberto Pagano e Franco Pino – è una sorta di risposta data per vendicare la scomparsa per lupara bianca di Armando Bevacqua. L’uomo, che era figlio naturale di Luigi Palermo, era stato fatto sparire il 31 luglio del 1980. Mazzei veniva ritenuto vicino a Carlo Rotundo, contabile del clan Perna, ammazzato a sua volta nel 1981.
“Carletto”, mentre scende dalla sua auto blindata per fare rifornimento di carburante, viene raggiunto da un mare di piombo. Nel frattempo un giovane, Salvatore Altomare, custode di un museo a Venezia, che era sceso a Cosenza per salutare la sua famiglia, mentre guidava la propria auto con al suo fianco la giovane moglie e la figlioletta di soli tre anni, si accascia sullo sterzo della sua autovettura e muore, colpito da un proiettile vagante.

Ce n’era abbastanza per decidere con urgenza la costruzione del nuovo carcere, che viene individuato nel quartiere di via Popilia. Siamo nel 1982 e il sindaco della città di Cosenza è Pino Gentile quando il nuovo carcere diventa realtà.

Nel settembre del 1982 giunge a Cosenza, in qualità di direttore del carcere locale, Sergio Cosmai. Pugliese di Bisceglie, era stato vice direttore delle carceri di Trani, Lecce e Palermo e direttore di quelle di Locri e Crotone. Cosmai non tollera i trattamenti di favore di cui godevano i malavitosi nella casa circondariale di Cosenza.

Tocca a Cosmai, dunque, impegnarsi nella riorganizzazione del carcere, favorendo un clima di maggior rispetto e legalità tra i detenuti, mettendo fine a tutti quei piccoli e grandi privilegi concessi agli esponenti di spicco della criminalità locale e promuovendo una capillare sorveglianza per bloccare le attività illecite, tra cui il traffico di droga ed il possesso di armi all’interno della struttura. Il direttore pugliese decide di mettere fine a questo trend. Con il risultato di accelerare la pacificazione tra i clan fino a quel momento divisi.

A ordinare l’omicidio di Sergio Cosmai è Franco Perna, rimproverato dalle ‘ndrine del reggino di essersi fatto sottrarre il controllo del carcere. E il clan Pino-Sena è perfettamente d’accordo. Il 21 giugno del 1983 alcuni detenuti inscenano una protesta rifiutando di rientrare nelle celle. La loro pretesa era di usufruire di un’ora d’aria in più. Cosmai non si piega dinanzi a questa dimostrazione di forza. Era in gioco la credibilità delle istituzioni. Il direttore ordina alle guardie penitenziarie di ripristinare l’ordine con i manganelli. Ne seguono dei tafferugli in cui rimangono feriti alcuni carcerati, compreso lo stesso Franco Perna. Nasce proprio allora la “pax mafiosa” tra i due clan, che si accordano per uccidere Sergio Cosmai il 12 marzo 1985 e qualche anno dopo sigleranno il patto che andrà avanti, in pratica, fino alla fine degli anni Novanta, quando arriverà la seconda guerra di mafia. Nel frattempo, la nuova casa circondariale di Cosenza viene intitolata proprio a Sergio Cosmai, com’era sacrosanto che fosse.

Alle 14 del 12 marzo del 1985 Sergio Cosmai è barbaramente assassinato nel tratto della SS 19 che collega Cosenza a Roges (Rende) (oggi viale Cosmai). Si spegne all’ospedale di Trani, dove era stato trasportato, il giorno seguente. Stava recandosi all’asilo per portare a casa la figlioletta Rossella di appena tre anni. Il figlio Sergio nascerà il mese successivo.  Un’autovettura  si affianca alla sua 500 gialla; gli attentatori esplodono undici proiettili calibro 38 che lo colpiscono alla testa.

La Corte d’assise di Bari condanna all’ergastolo Nicola e Dario Notargiacomo e Stefano Bartolomeo. In appello, tuttavia, vengono assolti per insufficienza di prove.

Dario Notargiacomo
Dario Notargiacomo

In seguito Dario Notargiacomo racconta le fasi del delitto:

“Il direttore veniva controllato e le sue mosse spiate dall’abbaino che è sito sulla casa di Giuseppe Bartolomeo, a Bosco De Nicola. Con un cannocchiale si riusciva a seguirlo in tutti i suoi spostamenti”…. Quella mattina, Giuseppe Bartolomeo segnalò a mio fratello Nicola quando Cosmai uscì dal carcere. Io e Stefano Bartolomeo aspettavamo nascosti a bordo di una Mitsubishi verde. Eravamo camuffati con barbe, baffi e parrucche. Lo vedemmo e ci avviammo. Quindi l’ affiancammo. Io esplosi il primo colpo che non andò a segno. Però, il dottore aveva capito benissimo quello che stava accadendo e frenò di colpo. Allungai la mano e sparai ancora. Lui mise la retromarcia, cercò di fuggire, Bartolomeo tirò fuori una calibro 38. Sparò 2 o 3 colpi e poi me la passò. Io feci lo stesso. Mi avvicinai ma l’arma era scarica. Constatai, però, che Cosmai era immobile”.

La polizia, guidata da Nicola Calipari, arriva ai fratelli Notargiacomo e Bartolomeo ma le prove raccolte non basteranno per farli condannare. Neanche la coraggiosa testimonianza di un ragazzino di 12 anni, Giampiero Guido. La Corte d’Assise di Trani in realtà li condanna all’ergastolo in primo grado ma poi, in Appello, a Bari, arriverà una clamorosa sentenza di assoluzione per insufficienza di prove, confermata anche in Cassazione.

Dopo l’assoluzione, Stefano e Giuseppe Bartolomeo decisero di staccarsi dal clan Perna e di mettersi in proprio. Pagarono a caro prezzo la mancata fedeltà al boss e le loro ambizioni criminali: entrambi furono ammazzati e sciolti nell’acido.

I fratelli Notargiacomo, nonostante la confessione successiva al loro pentimento del 1994, evitarono la condanna perché non processabili essendo stati assolti per lo stesso reato con sentenza passata in giudicato”.

(Davide Scaglione, Info Oggi)

SETTANTA MILIONI PER AGGIUSTARE IL PROCESSO

In primo grado gli esecutori del crimine saranno condannati all’ergastolo sulla base di indizi ritenuti «univoci e concordanti». In seconda istanza, invece, saranno clamorosamente assolti per insufficienza di prove”.

Dieci anni dopo, il 26 novembre del 1996, durante la celebrazione del maxiprocesso “Garden” che vedeva alla sbarra i principali esponenti della criminalità organizzata, Mario Pranno disse testualmente in aula: “Consegnammo settanta milioni ai fratelli Bartolomeo. Servivano a risolvere le loro cose”.

“In che senso?”, chiese il pm di udienza Stefano Tocci.

“In quel momento attendevano di essere giudicati in appello per l’omicidio del direttore Cosmai…”. E i soldi, specificherà subito dopo l’ex boss “non servivano a pagare gli avvocati, né a sostenere le famiglie dei detenuti”.

Nicola Notargiacomo
Nicola Notargiacomo

Il 14 gennaio del 1997 – sempre durante il “Garden” – il pentito Franco Garofalo concluse la sua deposizione parlando della stessa intricata storia. “Per aiutare i fratelli Bartolomeo – dirà il collaboratore – condannati all’ergastolo in primo grado per l’omicidio Cosmai, fu cacciata una certa somma data a una persona di Bari”. A chi? Nessuno è mai riuscito a scoprirlo.

Il processo d’appello venne insomma “aggiustato”? Tutto lascerebbe pensare di sì. E più volte i media di regime si sono affannati a far circolare i verbali riempiti da Nicola Notargiacomo nei quali raccontava per filo e per segno l’amicizia e gli affari che faceva con Giuseppe Graviano e con la mafia palermitana. Ricordano tutto, persino il periodo in cui furono ospitati a Palermo per salvarsi la pelle e per curarsi ma non questo particolare che è stato essenziale per salvare non solo lui ma anche il fratello Dario e i fratelli Bartolomeo. E qualcuno di molto importante, certamente un pezzo deviato dello stato, dev’essere intervenuto per pagare il conto e aggiustare il processo per la morte di Cosmai, che rimane desolatamente irrisolto. Perché qui la trattativa mafia-stato la subiamo da una vita. E abbiamo visto tutti come Graviano se la facesse con i pezzi marci dello stato. E’ facile fare 2+2…

Soltanto nel 2012 la giustizia italiana “riesce” a riconoscere un colpevole per la morte di Cosmai: si tratta di Franco Perna, ritenuto il mandante dell’omicidio e condannato all’ergastolo.

Al nome di Sergio Cosmai sono intitolate un’aula della Pretura, una strada e una scuola della sua città natale.

I FRATELLI BARTOLOMEO SCIOLTI NELL’ACIDO

L’omicidio di Sergio Cosmai decreta, di fatto, la pace tra le due cosche.

Il 5 luglio del 1985, all’interno di un bar di Cosenza viene raggiunto da tre colpi d’arma da fuoco Alfredo Andretti che, poco dopo, spira in ospedale. I pentiti diranno che è stato eliminato perché aveva ucciso Mario Dodaro senza l’assenso delle cosche ma sono in pochi a crederci.

Per quattro anni non ci sono più lutti da addebitare alla guerra tra cosche. La “pax” dilaga dappertutto per la gioia dei traffichini e dei corrotti.

Certo, questo non vuol dire che qualcuno non cada ma sono fatti isolati, conti in sospeso che non fanno parte di guerra organica. Spesso si tratta di picciotti che potrebbero pentirsi. O dei fatidici “futili motivi”. Come nel caso di Rinaldo Picone, intimo amico dei fratelli Pranno, che viene eliminato dai fratelli Stefano e Giuseppe Bartolomeo il 27 gennaio del 1989, in via Accattatis.

Il 21 giugno di quello stesso anno, Anna Amendola denuncia la scomparsa del marito, Carmine Luce, esponente del clan Perna, avvenuta il giorno precedente. Lo fanno fuori i suoi stessi amici, che non si fidano più di lui. I resti del cadavere saranno ritrovati il 14 marzo del 1996, su indicazione del pentito Francesco Saverio Vitelli, in località “Pagliarello” di San Fili.

Il 15 agosto del 1990, nei pressi del campo sportivo di Donnici viene rinvenuta una Fiat Uno distrutta dalle fiamme, a bordo c’è il cadavere di Demetrio Amendola. Per quel crimine sono stati ritenuti responsabili Franco Pino e Gianfranco Ruà. Temevano che il ragazzo (aveva 26 anni) potesse parlare.

Il 24 agosto, in piazza Valdesi, viene ucciso Giuseppe Andali mentre gioca a carte, seduto a un piccolo tavolino. Imputati del delitto sono: Franco Perna, Pasquale Pranno, Francesco Saverio Vitelli, Franco Garofalo, Nicola Belmonte e Ferdinando Vitelli.

Il 5 gennaio del 1991 tocca ai fratelli Stefano e Giuseppe Bartolomeo, che dopo aver eseguito insieme ai fratelli Notargiacomo l’omicidio di Sergio Cosmai, si allontanano dal clan Perna e si rendono autonomi.

I germani, diventati fin troppo “autonomi” rispetto alle cosche cosentine, vengono massacrati a colpi di spranga all’interno di una pescheria all’epoca nella disponibilità dei fratelli Mario e Pasquale Pranno. I Bartolomeo sono attirati in trappola con la promessa della consegna di due giubbini: appena entrati nella pescheria viene sbarrata la porta e finiscono con l’essere selvaggiamente colpiti da Edgardo Greco e altre quattro persone. I loro cadaveri sono trasferiti in Sila e sotterrati. Tre anni dopo, nel 1994, vengono disseppelliti e sciolti nell’acido per timore che, sulla base delle rivelazioni dei pentiti, potessero essere ritrovati.

Per il duplice omicidio finiscono sotto processo Franco Perna, Pasquale Pranno, Francesco Saverio Vitelli, Giuseppe Ruffolo, Angelo Santolla, Aldo Acri, Edgardo Greco, Lorenzo Brescia, Giancarlo Anselmo.