Il termine status quo, dal latino “in statu quo ante”, indica la condizione attuale delle cose, spesso mantenuta per evitare cambiamenti. È una forma di stabilità apparente, sorretta più dalla paura dell’incertezza che da una reale convinzione. Quando questa tendenza si radica nel pensiero, diventa una resistenza psicologica: genera inerzia decisionale, spegne ogni impulso al cambiamento e porta a conservare strutture, processi e scelte ormai vuoti. È un fenomeno diffuso, tanto a livello individuale quanto collettivo, perché restare fermi – anche nel torto – sembra spesso meno rischioso che mettersi in discussione.
Lo status quo ci scorre addosso come una routine silenziosa, una normalità costruita nel tempo e accettata senza far domande. È il pilota automatico della società: tutto si muove per forza d’inerzia, protetto da abitudini, paure, convenienze. Si spaccia per equilibrio, ma è solo paralisi mascherata da ordine. Immobile, intoccabile, rassicurante. Il sistema – politico, economico, culturale – si regge proprio su questo equilibrio fragile ma ben difeso. Dove mancano alternative reali, lo status quo non è soltanto tollerato: diventa l’unica forma di sopravvivenza possibile. Cosenza, in questo senso, è l’esempio perfetto di una città che si è adattata all’inganno della normalità, semplicemente perché non ha avuto altra scelta. Qui non ci sono fabbriche, non esistono attività produttive degne di questo nome, non c’è un’economia reale. Il lavoro vero è un miraggio, e quel poco che circola ruota attorno al pubblico impiego, agli enti, alle municipalizzate, ai concorsi truccati, ai progetti scritti su misura per garantire incarichi agli amici degli amici. Tutto si regge sul denaro pubblico: unico carburante che tiene in piedi una città addormentata.
Poi c’è il resto. Il riciclaggio, per esempio. A Cosenza il mattone non si ferma mai, nemmeno quando il mercato è fermo, nemmeno quando non c’è domanda. Perché costruire qui non significa rispondere a bisogni reali, ma ripulire soldi sporchi. I palazzinari lo sanno bene: i loro cantieri sono lavanderie a cielo aperto. E sono proprio quei cantieri a generare consenso. Perché ogni colata di cemento non serve solo a nascondere denaro, ma a distribuire favori, incarichi, appalti. È così che si blinda il potere: con un grattacielo che svetta sulla miseria, con una rotatoria intitolata a qualche santo, con una piazza rifatta giusto in tempo per le elezioni. A questo si aggiunge il traffico di droga, soprattutto cocaina, che da anni a Cosenza non è più una parentesi, ma un’industria. Muove milioni di euro, dà da mangiare a tantissimi, e alimenta quella zona grigia dove criminalità, professionisti, politici e imprenditori si stringono la mano. È un sistema che funziona, perché tiene in vita un’economia che altrimenti sarebbe morta. Il lavoro legale manca, ma lo stipendio – in un modo o nell’altro – lo si trova.
Così lo status quo diventa comodo. Fa schifo, certo, ma garantisce un minimo di movimento, un’illusione di sopravvivenza. Nessuno lo dice apertamente, ma in fondo lo accettano tutti. I buoni e i cattivi. I moralisti e i complici. E chi prova a scardinarlo viene isolato, ridicolizzato, ignorato. Non perché dica il falso, ma perché rompe il patto non scritto che tiene insieme questa città: non cambiare nulla. Perché cambiare significherebbe fare i conti con anni di bugie, di ruberie, di complicità. E Cosenza, di conti, non ne vuole fare. Ma i conti devono quadrare lo stesso. E l’unico modo per far girare un po’ di soldi è accettare la logica marcia del sistema.
Per questo il sistema va bene a tutti. Si tace, si partecipa, si prende quel che si può. Chi con le buone, chi con le cattive. Ed è qui che tutto si fonde, tutto si confonde. Non c’è più distinzione. I buoni si adattano, i cattivi si mimetizzano. Il giusto e l’ingiusto diventano sfumature nella stessa rassegnazione collettiva. Cosenza e cosentini restano fedeli al vecchio adagio: chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che lascia, ma non sa quel che trova. È questa la filosofia spicciola che tiene in piedi tutto il meccanismo. Una prudenza che sa di paura, un istinto di conservazione travestito da saggezza. Così tutto resta com’è. Per abitudine, per convenienza, per istinto di sopravvivenza. Perché lo status quo può far schifo, sì, ma almeno è noto, prevedibile, gestibile. E allora va bene così. Così si sopravvive. Così si tira avanti. E chi prova a immaginare qualcosa di diverso, a rompere questo equilibrio marcio, diventa subito un problema. Perché il cambiamento fa paura, disturba, incrina la quiete apparente. E poco importa se quella quiete è garantita dall’illegalità. Tanto, alla fine, in questo sistema malato e perfettamente funzionante, l’unico vero reato lo commette chi vuole cambiare le cose.