Cosenza. La Dda mette il Turboli… ma resta al palo

Il pentimento a Cosenza è una pratica accettata serenamente da tutti i clan. Non c’è nessuna onta, infamità, disonore (stando agli assurdi quanto orribili “valori mafiosi”), per i malandrini di Cosenza, a pentirsi. Una “condizione” che fa oramai parte delle tante possibilità che il picciotto incontra nella sua vita criminale. E che in tanti sfruttano. È contemplato, oramai, nella “copiata” di affiliazione del picciotto: se le cose si mettono male, pentirsi è d’obbligo. La galera è per i caggi e i duri.

Il pentimento è l’ultima carta da giocarsi quando la prospettiva è una cella 3×3 per tanti lunghissimi anni. Una sorta di lasciapassare che catapulta il picciotto dal carcere al rifugio protetto, dove può continuare, nella maggior parte dei casi, a fare quello che più gli aggrada: taglieggiare, spacciare, strozzare, truffare, corrompere, intimidire. E gli esempi non mancano. Franco Pino su tutti. E poi quasi tutta la generazione di pentiti venuta fuori dal processo Garden: nonostante decine e decine di omicidi, alla fine solo in pochi hanno pagato il conto alla Giustizia. La maggior parte dei responsabili di efferati omicidi, quasi tutti pentiti, hanno continuato a fare affari con i proventi della loro attività criminale, diventando imprenditori, proprietari di ristoranti, bar e locali vari.

Non solo nessuno ha scontato la pena che meritava, ma addirittura è stato permesso loro di “investire” tutte le ricchezze accumulate in anni di strozzo, pizzo, e traffico di droga, in affari oggi diventati leciti. E potremmo continuare con altri esempi, come quello di tre cosentini pentiti alloggiati a spese dello stato in quel di Roma che, annoiati dalla loro desueta quotidianità, passavano il tempo a rapinare ristoranti e bar per acquistare cocaina. O lo “spot” di Adolfo Foggetti che dalle colonne di Tik Tok comunicava ai suoi ex compari, con tanto di banconote volate al vento, e pistola (giocattolo) alla mano, che l’Escobar che c’è in lui non è mai morto. Senza parlare poi dei tanti pentiti portati a spasso da carabinieri e polizia a sbrigare i loro sporchi affari.

Il pentimento visto come escamotage per evitare la galera, a patto che tutte le dichiarazioni, indipendentemente dal grado di mafiosità del picciotto, soddisfino, nel bene o nel male, le aspettative di chi li gestisce. Quale sia il criterio usato dalla Dda nel selezionare i pentiti che ad ogni retata spuntano come lumache dopo un acquazzone, non è dato sapere. Un dato resta però chiaro: a tutti i pentiti la Dda affibbia un grado e un ruolo che non corrisponde, spesso e volentieri, alla realtà criminale vissuta dal picciotto pentito. Per la Dda di Catanzaro sono tutti boss o il braccio destro di qualche boss, oppure picciotti di alta levatura criminale.

Ma noi cosentini che conosciamo i personaggi sappiamo benissimo che per tanti pentiti nostrani questa definizione è una palese esagerazione, il perché di tutto ciò possiamo solo immaginarlo. A riprova di quello che sosteniamo, e senza scomodare i tanti casi che l’hanno preceduto, basta guardare come viene definito l’ultimo pentito cosentino Danilo Turboli, dalla Dda di Catanzaro: braccio destro del boss Porcaro, e uomo di punta delle cosche confederate di Patitucci. Il che corrisponde al vero solo nella misura in cui si considera il Turboli come un cavallo da soma da sfruttare per via della sua arcinota dipendenza da sostanze pesanti. Un assiduo consumatore di droghe pesanti che si occupava di perseguitare altri consumatori di pezzata, che avevano problemi a pagare la “roba”. Un cesso di persona che pur di soddisfare la sua tossicodipendenza non esitava a menar le mani su individui del tutto inermi e consumati dalla droga. Un vessatore di poveracci e disperati. Un malandrino di cartone che agiva solo sotto effetto di droga. Un senza palle che eseguiva gli ordini del boss solo per ricevere la sua droga quotidiana. Un ignorante che si nutre di sottocultura mafiosa che non ha neanche l’intelligenza di capire di essere solo uno sfruttato, al pari delle sue vittime. Ma quale braccio destro, ma quale picciotto d’onore, Turboli è solo l’ennesimo personaggio che ha utilizzato il jolly del pentimento, inguaiato com’era, che la Dda concede a questi pezzi di fango.

Cosa può aggiungere uno come Danilo Turboli al “romanzo criminale” cosentino che la Dda di Catanzaro già non sappia, francamente non si capisce. Di quello che succede nella Cosenza criminale hanno già reso ampie confessioni, a loro insaputa, i principali protagonisti quali Patitucci e signora, Porcaro e signora, Di Puppo, Piromallo, D’Ambrosio e altri, nelle 8000 pagine dell’ordinanza “Reset” di qualche mese fa. Come a dire: la Dda vorrebbe far credere di aver messo, nell’investigazione, il Turboli ma, visto il personaggio, è del tutto scontato che anche questa volta gli investigatori resteranno al palo. Altro che Turbo…li.