Cosenza, la deriva della Fiera e la doppia morale sul Viale (di Battista Sangineto)

di Battista Sangineto

ARTICOLO RISALENTE AL 19 MARZO 2019 MA ANCORA ATTUALISSIMO

Il sindaco di Cosenza (all’epoca era ancora Mario Occhiuto, ndr) ha ordinato, anche quest’anno, che, in occasione della Fiera di San Giuseppe, le scuole di ogni ordine e grado devono rimaner chiuse per quattro giorni per evitare i disagi che il loro pieno funzionamento potrebbe arrecare ai cittadini, perché come aveva scritto nel 2017 “la chiusura al traffico di un’importante arteria stradale come Viale Mancini, ostacola l’ordinaria circolazione veicolare e rende estremamente difficoltoso raggiungere le scuole cittadine”. Quattro giorni?! La chiusura di Viale Mancini?! Ritorneremo su questi argomenti fra poco, dopo aver ricapitolato i termini della vicenda.

Il sindaco Occhiuto ha voluto trasferire, dal 2012, la tradizionale Fiera di San Giuseppe lungo l’anonimo canyon di cemento, intitolato a Giacomo Mancini, dal luogo nel quale si svolgeva da secoli: i lungofiumi ed una parte del Centro storico. Le motivazioni addotte erano quella riguardanti la sicurezza per i visitatori e quella del mancato decoro della manifestazione che, a dire di Occhiuto, non poteva svolgersi nei vicoli angusti, sporchi e cadenti della città antica e lungo i pericolosi margini dei fiumi. Si deve rilevare che queste stesse preoccupazioni il sindaco, però, non le ha per coloro i quali abitano proprio in quel Centro storico sporco, con i palazzi caduti o a rischio di crollo tutti i giorni.

In questa occasione è, forse, utile ricordare che le Fiere rappresentano uno degli elementi costitutivi della nostra civiltà, della nostra cultura italiana ed europea: dalle “nundinae” romane (e pre-romane) fino alle fiere tipiche del mercantilismo medioevale che hanno arricchito città e regioni del nostro paese e del nostro continente sia da un punto di vista economico, sia da un punto di vista sociale, culturale e religioso. Le Fiere rappresentano uno dei caratteri fondanti della nostra identità culturale di europei, di italiani e di cosentini al pari dei Centri storici nei quali queste manifestazioni, tutte, continuano a svolgersi. Le Fiere, nelle nostre antiche città, sono fatte di calca, di sapori, di lezzo, di vocio e di suoni assordanti, di ristrettezza degli spazi, di odori improvvisi e penetranti delle spezie, di vicoli angusti e un po’ maleodoranti, di musica trash, di richiami ingannevoli dei venditori di paccottiglia, di fatica impiegata a fendere la folla, di colori squillanti e di oggetti più o meno kitsch. Le Fiere sono una memoria lontana, ma ancora vivente, del nostro modo di essere da secoli, da millenni: rappresentano, meglio di molte altre attività umane, uno dei modi migliori che noi italiani, noi meridionali, abbiamo inventato per convivere pacificamente.

Lo spostamento dal suo spazio consueto, la città storica, verso uno stradone brutto e senza alcun passato ha comportato un inevitabile snaturamento della Fiera che ora si svolge in un nonluogo, facendola diventare un altro desolato e orribile centro commerciale, all’aperto, nel quale si vende, prevalentemente, paccottiglia prodotta da sfruttatissimi operai cinesi. Un risultato davvero straordinario quello ottenuto da questa Amministrazione: da plurisecolare manifestazione di devozione popolare accompagnata, come avviene dall’antichità classica, da un’occasione commerciale per i produttori locali ad archetipico “nonluogo” della globalizzazione più spaesante.

In questi ultimi anni, a Cosenza, si è progressivamente favorita l’angoscia territoriale, evocata e temuta da Ernesto De Martino, che è la prefigurazione della perdita di appartenenza di un luogo ad un gruppo umano e viceversa. Un altro elemento di perdita dell’identità e di aumento del senso di spaesamento è la ripetuta ridenominazione dei luoghi come è avvenuto, per esempio, nel caso di Piazza Luigi Fera in favore di una ricca famiglia o come nel caso di alcuni tratti dei lungofiumi per celebrare barbari invasori. Gli studiosi di scienze sociali sostengono che nominare i luoghi è una delle prime attività di orientamento, di organizzazione dell’ambiente circostante che compiono le società sin dall’antichità. Chiamare un posto per nome, con un nome, significa evocarne l’identità, mentre accettare di separarsi dai nomi dei propri luoghi significa accettare di perdere porzioni significative di identità. La frequente, e non ben motivata, ridenominazione di molti luoghi storici di Cosenza contribuisce alla perdita progressiva dell’identità. Questa nuova toponomastica insieme allo sradicamento della plurisecolare Fiera di San Giuseppe dal Centro storico, contribuiscono a far diventare il cittadino medio cosentino indifferente alla sua città, al suo territorio perché, subendo decisioni prese dall’alto, diventa solo un utente ricacciato in una condizione di costante spaesamento, di cronico fuor-di-luogo (La Cecla).

A completare questa snaturante trasformazione viene l’ordinanza del Sindaco di chiusura, per la terza o quarta volta e per quattro lunghissimi giorni, delle scuole di ogni ordine e grado per evitare disagi ai visitatori della Fiera ed agli alunni. La Fiera di San Giuseppe è l’unica manifestazione locale per la quale, in Italia e all’estero, si chiudono le scuole per così tanto tempo; neanche a Catania per la famosissima Festa di Sant’Agata, neanche a Napoli per la celeberrima Festa di San Gennaro, neanche a Monaco per l’ormai globalizzato Oktoberfest.

Un’ultima, ma non per questo di minor conto, considerazione va fatta sul traffico e su Viale Mancini perché nell’ultima campagna elettorale, che lo ha visto poi vincitore con il 60% dei voti, l’attuale Sindaco aveva come elemento caratterizzante la ferma opposizione alla realizzazione della metropolitana leggera. Un’opera, già finanziata con 120 mln. di euro, che dovrebbe collegare il centro di Cosenza con l’Università, passando proprio dal suddetto Viale. Occhiuto, come tutti sanno, ha rivisto le sue posizioni dicendo che sarebbe stato d’accordo a far passare la metropolitana da Viale Mancini a patto che quest’ultimo venisse chiuso al traffico veicolare e trasformato nel più grande parco verde lineare d’Italia, aggiungendo che: “in tale contesto sarà possibile l’attraversamento di soli mezzi di trasporto pubblico, elettrici e non inquinanti, e con la massima permeabilità, nonché con l’esclusione di cordoli, barriere, ostacoli di qualsivoglia natura. Inoltre, è previsto l’utilizzo di materiale rotabile con minor impatto, con inderogabile esclusione, appunto, di sospensioni o cavi”.

Una domanda sorge, a questo punto, spontanea: se è vero, come recitava la prima ordinanza del sindaco del 2017, che: “la chiusura al traffico di un’importante arteria stradale come Viale Mancini, ostacola l’ordinaria circolazione veicolare e rende estremamente difficoltoso raggiungere le scuole cittadine”, quanto ostacolerebbe l’ordinaria circolazione veicolare l’immaginifico progetto del sindaco che vorrebbe, per permettere la costruzione della metro, chiudere al traffico veicolare per sempre il suddetto canyon di cemento, trasformandolo in un’area verde e pedonale? Una interruzione di quattro giorni di Viale Mancini, quindi, rende “estremamente difficoltoso” il traffico, ma la sua definitiva chiusura, al contrario, lo agevolerebbe? Quanto lo agevoli lo sanno i cittadini che impazziscono nel traffico a seguito della parziale chiusura del Viale.