di Nicola Mondelli, avvocato
In un Paese civile — e l’Italia, almeno sulla carta, pretende di esserlo — ogni persona accusata di un reato ha diritto alla difesa. Non è un’opinione, non è un lusso, non è un favore: è un diritto costituzionale. Lo dice l’articolo 24 della Costituzione italiana, quella che qualcuno legge solo quando gli fa comodo:
“La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”.
Sottolineo: inviolabile. Non ci sono eccezioni, non ci sono categorie di imputati “troppo colpevoli” per meritare un avvocato. Non importa quanto il presunto reato sia grave o odioso: tutti, e ripeto tutti, hanno diritto a essere assistiti da un difensore. Ed è proprio qui che entra in gioco il dovere dell’avvocato. Non si tratta di scegliere simpatie, né di difendere chi si “merita” qualcosa: si tratta di esercitare una funzione costituzionale. L’avvocato non è lì per assolvere, ma per garantire che il processo si svolga secondo le regole, con pieno rispetto dei diritti della persona. È il guardiano delle garanzie, l’argine contro l’arbitrio, la voce di chi, altrimenti, sarebbe schiacciato dalla macchina dello Stato.
E se l’imputato non ha risorse economiche per pagare un avvocato, la legge prevede il gratuito patrocinio: un istituto fondamentale che consente l’accesso alla difesa anche a chi non può permettersela. Ma attenzione: il gratuito patrocinio non si concede a cuor leggero. Viene riconosciuto solo dopo un accertamento rigoroso delle condizioni economiche del richiedente. Se viene concesso, è perché è stato verificato che l’imputato non ha mezzi sufficienti per sostenere le spese legali. Non è un favore, né un “regalo” fatto all’imputato o all’avvocato: è un dovere preciso dello Stato, una garanzia che nessuno resti senza difesa solo perché non può permettersela.
Negare tutto questo, sostenere che “alcuni non meritano un avvocato” perché colpevoli in partenza, è roba da Stato di polizia. È mentalità da ventennio. È autoritarismo puro: chi pretende che ci siano imputati indegni di difesa è un nemico della democrazia. Perché rifiuta le basi stesse della democrazia, che si fonda proprio sull’equilibrio tra accusa e difesa, sulla presunzione d’innocenza, sull’idea che la giustizia si amministra con regole, non con forconi e tribunali popolari. E bisogna dirlo una volta per tutte: l’avvocato non è e non può essere considerato complice del suo assistito. Pensarlo è un’aberrazione, una deformazione del concetto stesso di giustizia. È un’idea tossica che può attecchire solo in chi non accetta le regole della democrazia, e preferisce sostituirle con il pregiudizio e la vendetta. Difendere un imputato non significa condividere le sue azioni, ma difendere il suo diritto ad essere giudicato secondo legge. E questo vale per tutti.
Gli avvocati che accettano casi difficili, scomodi o impopolari, non sono complici: sono garanti dello Stato di diritto. E ogni volta che fanno il loro lavoro, tengono in piedi la democrazia. Non dimentichiamolo.