Cosenza, la favola di Brunello Trocini/1: il “ragazzino terribile”

Dopo aver sondato gli umori della piazza facendo uscire la “notizia” del contatto con Brunello Trocini, Gargamella come suo solito è tornato nel silenzio più totale in attesa di tempi migliori. Brunello intanto ha fatto sapere in maniera informale che – se mai dovesse ricevere un’altra telefonata dal nemico dei puffi – lo manderà a… cagare. E noi ne approfittiamo per ricordare il percorso di Trocini, orgoglio cosentino. 

di Gabriele Carchidi

Questa intervista con Brunello Trocini la conservo gelosamente da un po’ di anni. In cuor mio sapevo che questo (ormai ex) ragazzo sarebbe riuscito alla grande nella carriera di allenatore dopo aver toccato il cielo con un dito da ragazzino alla Juventus e aver pagato il contraccolpo psicologico di essere andato via di casa a 16 anni. Ho aspettato prima di pubblicarla su Iacchite’ perché c’era bisogno della cosiddetta consacrazione e così tre anni fa, dopo la storica vittoria del suo Rende al “Gigi Marulla”, era arrivato il momento di rispolverarla non prima di avergli augurato le migliori fortune. Allora c’era già nell’aria un contatto con Guarascio, che meditava di scavallare Braglia ma poi arrivarono i playoff e buonanotte ai suonatori. Il problema principale però è sempre lo stesso: il patron si chiama Guarascio e con i cosentini (come sa anche Brunello) non ha per niente un grande feeling. Ma siamo sicurissimi che Brunello lo manderà a… cagare. 

Bruno Trocini, per tutti “Brunello”, è il figlio di Giorgio, il valoroso terzino che fu tra i protagonisti della promozione del Cosenza in Serie B del 1961, e poi da imprenditore nel ramo delle costruzioni, il presidente della Morrone dal 1972 al 1977 e il vicepresidente del Cosenza Calcio dopo la costituzione della SpA.

Attaccante, classe 1974, è esploso nella “Primavera” del Cosenza nel 1990 ed è passato alla Juventus alla cifra record di 2 miliardi. Con la prima squadra rossoblù ha giocato solo 10 minuti, nel 1991. Non c’era bisogno che ne giocasse di più perché potesse spiccare il volo verso il calcio che conta.

Quanto ha influito tuo padre nel farti intraprendere la carriera di calciatore?

Vuoi sapere la verità? Papà non mi ha mai incoraggiato a giocare. Il problema è che io, già da quando riuscivo a camminare, me ne stavo a trotterellare con un pallone tra i piedi dalla mattina alla sera. Sì, credo che sia stata una questione di cromosomi… e comunque mio padre non l’ho mai visto giocare: ha smesso a 25 anni e non faceva neanche le partitelle delle vecchie glorie.

E così entri nei “Pulcini” del Cosenza.

Papà era già dirigente, ma non gli piaceva per niente come veniva gestito il settore giovanile. Il mio primo maestro è stato Luigi Prisco, il talent scout napoletano. Un anno e sono passato alla Morrone, dove mi seguiva Umberto Salerno ma neanche lì sono rimasto molto tempo.

Stavi aspettando Bebè De Maddis? Probabilmente sì. Sono passato al Castrolibero, nel 1987, a 13 anni, e ho giocato il mio primo campionato “Giovanissimi” con mister Bebè. Ci faceva divertire e stare bene, ci sapeva fare, capiva quello che volevamo noi ragazzi e ci assecondava. Mi ha insegnato come si sta in una squadra, i fondamentali di calciatore. De Maddis mi faceva giocare da trequartista a ridosso delle punte. Avevamo una bella squadra: con me c’erano Miceli e Dima, con i quali avrei giocato anche nel Cosenza, Tonino Pate, che poi è esploso nel basket e Maurizio Leone, che è diventato un campione dell’atletica leggera. Come ci siamo classificati? Abbiamo vinto il campionato regionale, altro che storie.

Quanto basta per farti ritornare al Cosenza.

Beh, è chiaro che mio padre, a quel punto, mi indirizzò di nuovo al Cosenza. Soprattutto perché ad allenare gli Allievi c’era un suo ex compagno di squadra, Rolando Gramoglia. Grazie a lui ho affinato la tecnica individuale e sono stato lanciato ancora meglio nel ruolo di trequartista. Nel frattempo alla guida della prima squadra, a fine 1989, era tornato Gianni Di Marzio. Al mister non sfuggivano mai i ragazzi emergenti e così, dopo avermi visto giocare, gli venne in mente di trasformarmi in attaccante. Seconda punta di movimento o ala sinistra. Nonostante fossi ancora un “allievo” sono stato aggregato alla “Primavera” di mister Gerardi e Di Marzio qualche volta mi convocava persino con la prima squadra.Quell’anno, il 1990, la “Primavera” rossoblù ha iniziato il suo viaggio verso la storia.

Siamo riusciti a vincere il girone eliminatorio del Sud superando società di tradizione come Napoli, Bari e Lecce. Con me giocavano anche Fiore, Miceli, Pellegrino, Oliva, Nocera, Santagata, Luca Valentini e tanti altri e io sono stato a lungo capocannoniere. Nell’altro girone c’erano Del Piero, Inzaghi e Montella. Il nucleo portante di quella formazione (i classe 1975 in sostanza) due anni dopo vinse il titolo di Campione d’Italia battendo in finale il Parma.

Ed è arrivata anche la Nazionale.

Sì, la Under 16, la Under 17 e la Juniores. Una volta, a Salerno, sono stato il migliore in campo e in tribuna a vedermi c’erano decine di osservatori. Per non parlare dei giornalisti. Il Corriere dello Sport aveva pubblicato un’inchiesta sul fenomeno dei “bambini prodigio” del calcio e mi accomunò ai vari Del Piero, Inzaghi e Montella. Ma soprattutto scrive che la mia quotazione si aggira sul miliardo e mezzo. Roba da non crederci. Purtroppo, però, proprio in quel periodo, mi sono infortunato alla caviglia in una partita della Nazionale e sono stato costretto a stare fermo un paio di mesi.

A Del Piero in particolare mi sembra che sia legato un gustoso aneddoto.

Ho conosciuto Alessandro Del Piero nella Nazionale Under 17 di Sergio Vatta nel 1991. Lui giocava nel Padova, io ero già alla Juventus. Siamo entrambi del 1974 ma lui è un “secondo ’74” (è nato dopo il mese di luglio, ndr) e questo nel calcio ha ancora la sua importanza. In sostanza, lui era ancora più ragazzino di me. E in quel periodo si parlava molto dei ragazzini che i grandi club si contendevano a suon di miliardi. Io e Del Piero “costavamo”, come ti dicevo, un miliardo e mezzo. Io, un po’ spavaldamente, dissi: “Ma chi è ‘sto Del Piero che costa quanto me?”. Lui si fece avanti, ci presentammo e mi disse che aveva la stessa curiosità per me.

E la prima squadra del Cosenza?

Mister Di Marzio mi faceva allenare costantemente con la prima squadra, mi ha convocato per la prima volta a Reggio Calabria mandandomi in tribuna e ad Avellino mi ha fatto sedere in panchina. Poi è stato esonerato ed è arrivato Edy Reja. Con Di Marzio ho avuto un ottimo rapporto. Mi “coccolava”, certo, aveva capito che avrei fatto carriera, ma qualche volta mi sgridava. Una volta disse davanti a tutti i miei compagni che mi avevano beccato al “Castello” di Sangineto a ballare. Ma io la domenica dopo non dovevo mica giocare”.

E Reja?

Sarebbe toccato a lui farmi esordire in Serie B. Era il 10 febbraio 1991. Al San Vito era di scena l’Ascoli, che lottava per la promozione. C’erano Lorieri, il brasiliano Casagrande, Pierleoni, Bernardini, Sabato. Noi eravamo incappati in un’annata difficile, quella che poi si sarebbe conclusa con lo spareggio di Pescara con la Salernitana deciso da Marulla. Biagioni ci aveva portato in vantaggio con un gran gol ma Casagrande aveva pareggiato e la partita si era un po addormentata. Il mister Reja mi disse che toccava a me. Entrai a dieci minuti dalla fine al posto di Biagioni e qualcuno si affrettò a dirmi che non era il caso che mi agitassi troppo ma io ero troppo emozionato per fare qualsiasi cosa, diciamo pure che non capivo più niente. Un paio di scatti, un paio di passaggi e la partita era già finita. Naturalmente 1-1.

1 – (continua)