Cosenza, l’omicidio di Antonio Ruperti. Tutto nasce da una “soffiata” a Pignataro, il vicequestore declassato

Di giustificazioni ufficiose sul perché quel maledetto sabato 9 settembre l’autocivetta della polizia si trovava all’incrocio tra via Martorelli, e via Falvo nel quartiere di Torre Alta a Cosenza, ne abbiamo sentite tante. E ne citiamo qualcuna: l’autocivetta transitava su via Martorelli perché doveva recarsi in Tribunale. L’autocivetta era lì perché il vicequestore declassato Pignataro doveva fare degli accertamenti su alcuni stranieri cinesi residenti nel quartiere di Torre Alta. L’autocivetta era lì perché proveniva dal centro commerciale ed era diretta in questura. Insomma l’autocivetta transitava su via Martorelli per puro caso. È chiaro a tutti che tali “giustificazioni” cozzano con la verità e l’oggettività narrata dai fatti. La scusa del Tribunale non regge, primo perché dovrebbero spiegare come mai per andare al tribunale, visto che provenivano da piazza Europa, Via Panebianco, decidono di girare all’altezza della Città dei Ragazzi. Tutti sanno che per andare al Tribunale conviene girare, se provieni da piazza Europa, dalla traversa della sopraelevata. E invece loro decidono di fare il giro largo. Anzi larghissimo. E poi perchè il Tribunale di sabato generalmente è chiuso, tranne che per le urgenze.

Se è vero che il vicequestore si aggirava con l’autocivetta nel quartiere di Torre Alta per svolgere accertamenti su alcuni residenti stranieri, ci sarà di sicuro una “pratica” che lo dimostra. E deve essere anche una pratica urgentissima, dato che si è scomodato un vicequestore di sabato mattina per espletarla. Come si dice: quando la pezza è peggiore del buco. Quelle che stanno circolando sono tutte scuse – o se preferite alibi – che, come il silenzio della questura, sanno di coda di paglia. Chiarire il perché l’autocivetta si trovava nel quartiere di Torre Alta serve a capire il livello di responsabilità in questa tragedia. Se alla guida dell’auto ci fosse stato un semplice cittadino, la ricerca del livello di responsabilità si sarebbe limitata a capire lo stato psicofisico del conducente e quali norme del codice della strada ha violato. Ma in questo caso si tratta di poliziotti in servizio in un’autocivetta nel cuore di un quartiere popolare, e le responsabilità, quando “ci scappa il morto”, sono diverse da quelle che stanno in capo al comune cittadino. Quando c’è di mezzo una operazione di polizia, la tragicità di un evento, non può essere solo ricondotta alla fatalità. Bisogna sempre capire cosa è andato storto, che non equivale, come nel caso del semplice cittadino, solamente a capire quale regola del codice della strada è stata violata. E la domanda diventa: hanno rispettato il protocollo di intervento e le “regole d’ingaggio”? Una domanda che non si pone mai ai cittadini coinvolti in incidenti stradali. Ai poliziotti in servizio, coinvolti in una operazione pensata male e finita peggio, sì.

Visto che di dare spiegazioni la questura non ne ha voglia, ci siamo adoperati per capire se la tesi della fatalità è la unica e sola pista da seguire. E per capire che non è la sola pista da seguire bisogna provare che l’autocivetta era lì in servizio proprio in attesa della moto Aprilia Pegaso 650. Ricostruiamo, perciò, le fasi precedenti all’omicidio di Antonio e quelle immediatamente successive, convinti di poter dimostrare che l’autocivetta si trovava nel quartiere di Torre Alta sulle tracce proprio della moto, e quindi in servizio.

La notizia dell’incidente di Antonio, avvenuto alle ore 11,35 di sabato 9 settembre, in pochi minuti fa il giro della città e sul posto si reca, attorno alle 12,30, anche il proprietario della moto Valentino De Francesco. Che subito si “presenta” ai poliziotti dichiarando di essere il proprietario della moto e che Antonio l’aveva presa a sua insaputa. I poliziotti gli chiedono se può provare quello che dice e si recano a casa del De Francesco per acquisire le immagini, riprese dalle telecamere installate presso la sua abitazione, che dovrebbero testimoniare quanto da lui sostenuto. Una volta in casa, i 4 poliziotti in borghese, dopo un breve ma intenso battibecco con la proprietaria, prendono visione delle immagine e invitano il De Francesco in questura per acquisire anche le immagini delle telecamere presenti nel suo telefonino. Ad operazione ultimata viene “rilasciato”.

Le immagini acquisite mostrano Antonio che, alle ore 11,18, indossato il casco bianco, sale sulla moto parcheggiata in via Montagna, e parte da solo. A quell’ora il De Francesco non è in casa a detta della compagna che, in un lungo post su Fb, racconta le ore precedenti alla tragedia. Diventa verosimile la versione fornita dal De Francesco che afferma che Antonio si è impossessato della moto “ara mmucciuni”. Non è stato lui a consegnare le chiavi della moto ad Antonio. Le chiavi erano infilate nel quadro. Se lo scopo dei poliziotti che si precipitano a casa del De Francesco era quello di addossargli “l’incauto affidamento”, per spostare l’attenzione mediatica sul pregiudicato che non si fa scrupoli ad affidare una moto di grossa cilindrata ad un ragazzino, il tentativo si può dire fallito.

Le immagini e i testimoni scagionano De Francesco.  E allora provano a proporgli di denunciare per furto della moto Antonio. Anche un ladro di moto che corre a 130 all’ora può essere un buon “catalizzatore mediatico”. Ovviamente il De Francesco si rifiuta. L’impressione è quella che sin da subito la questura si adoperi per tenere sotto controllo le notizie. Ma la velina diffusa sul proprietario pregiudicato senza scrupoli della moto, senza assicurazione e revisione, guidata da un ragazzino senza patente, che correva a 130 all’ora “nei vicoli del quartiere”, non attecchisce. E non potendo svelare il “segreto di Pulcinella”, ovvero che stavano lì per beccare la moto, decidono di ripiegare sulla fatalità della tragedia, da qui le tante scuse di cui sopra.

La tesi da sostenere è la fatalità. L’autocivetta passava da via Martorelli per puro caso. Ma i fatti parlano. E a quelli ci atteniamo: De Francesco è finito nel lungo elenco dell’operazione “Reset”, ma non risulta tra i rinviati a giudizio, nel giugno del 2023 è agli arresti domiciliari, e ci resterà fino al 10 agosto, per una storia di una “piantagione di erba”. In quel periodo presso la sua abitazione vengono effettuate diverse perquisizioni, con tanto di cane antidroga proprio dalla polizia. Sempre con esito negativo. I controlli presso la sua abitazione sono all’ordine del giorno, anche per via delle misure di “prevenzione” a cui era sottoposto. Un volto noto alla squadra mobile. Il classico “attenzionato” che non passa certo inosservato ad un posto di blocco. La sua moto e la sua auto, se viste in giro per la città, sono “na paletta sicura”, come si dice a Cosenza.

Ed è proprio in questo contesto che arriva all’orecchio di qualche questurino una bella soffiata proprio sul De Francesco. Soffiata che viene gestita dal vicequestore declassato Pignataro, a cui è stata evidentemente fatta, in cerca di riscatto professionale. Il suo informatore gli ha spifferato che spaccia. Sa che il De Francesco ha in uso una moto Aprilia 650 Pegaso, e un’auto. E allerta qualche suo discepolo: sguardo vispo e occhio vivo, direbbe il commissario Manara. Ma di sgami neanche l’ombra. Il confidente insiste, e il vicequestore declassato intensifica, nei giorni precedenti all’omicidio, l’attività investigativa di quella che assume sempre più i contorni di una iniziativa personale. Un dato confermato dalla “fuga di notizie” sui famosi tre giorni, che precedono l’omicidio, di attenzione sugli spostamenti del De Francesco.

Il vicequestore declassato Pignataro vuole ritornare a giocare in serie A, come direbbe l’ispettore Coliandro, e ha bisogno di una brillante operazione. Ma lavora all’ufficio immigrazioni e non può svolgere investigazioni, e pattugliamenti. Ed è per questo che coinvolge gli agenti della Squadra mobile Carelli e Minervino. Essendo un loro superiore può chiedergli di farsi “un giro” insieme sull’autocivetta, magari promettendogli un bell’arresto. Di sabato l’ufficio immigrazione è chiuso ed ha voglia di ritornare all’azione. Ha tutte le informazioni che gli servono per far scattare le manette. Deve solo aspettare il momento giusto. Che si presenta proprio quel sabato mattina quando la moto viene segnalata da una volante via radio mentre imbocca via Panebianco. L’autocivetta con i tre poliziotti a bordo raccoglie la segnalazione, ed essendo già in zona proprio perché in attesa dello “spacciatore”, si adopera per intercettarla. E nell’azzardo della manovra, sollecitata dalla smania di bloccare il “criminale”, sperona la moto con a bordo Antonio.

Ma perché Antonio si trovava quella mattina a bordo della moto di De Francesco? Antonio frequentava casa di Valentino De Francesco da qualche mese. Valentino lo conosceva da quando era bambino per via della vecchia amicizia con il padre. Andava e veniva da casa sua come uno di famiglia. Antonio frequentava l’Istituto Alberghiero, e amava le moto. Nonostante la giovane età aveva già dimestichezza con le due ruote. E le cavalcava ogni volta che poteva. Ogni occasione era buona per inforcare la moto e farsi un giro. Come avvenne quella mattina. Il richiamo di una potente 650 deve essere stato per lui irresistibile. Doveva andare dal parrucchiere, così aveva detto il giorno prima alla compagna del De Francesco. E presa la moto si avvia verso il suo destino.

Lo speronamento della moto è l’irresponsabile conseguenza dello scellerato intervento di un dirigente di polizia in cerca di rivalse professionali, come rimedio alla sua chiacchierata carriera. Sperava di fare il colpaccio e di prendersi il merito, ma le cose, proprio perché privo di professionalità, gli sono sfuggite di mano. Come tante altre volte del resto. Sulla moto c’era Antonio e non il trafficante di droga che sperava ci fosse.

Come giustificare tutto questo? Non possono certo dire che aspettavano la moto per iniziativa personale del vicequestore declassato in cerca di medaglie. E nemmeno possono giustificare l’intervento con la scusa di aver assistito ad una flagranza di reato. La fatalità, per tutelare l’immagine della questura, è l’unica strada da seguire. Se venisse fuori la verità i vertici della questura dovrebbero spiegare il perché della presenza del vicequestore declassato Pignataro a bordo di un’autocivetta in servizio in un quartiere popolare. Il questore, il capo della mobile si troverebbero nell’imbarazzante posizione di dover spiegare se l’intervento del vicequestore declassato rientrava in un più ampio piano operativo mirato alla “repressione dello spaccio”, oppure no. Non possono confessare che il vicequestore declassato era nell’autocivetta non certo per questioni inerenti il suo ufficio immigrazione, ma per altro di cui loro non sapevano e non sanno nulla. Che figura farebbero? Perciò preferiscono tacere. Dire la verità significherebbe ammettere che in questura “chini si aza primu a matina cummanna… e fa quello che gli pare”. E quel maledetto sabato mattina il primo ad alzarsi è stato il vicequestore Pignataro. E su questo non ci sono dubbi.