Cosenza. Questori a scadenza e scheletri negli armadietti

In tutte le fiction – e anche in moltissimi film del genere crime, dal Commissario Montalbano in giù – c’è sempre il bravo poliziotto: ostinato, incorruttibile, disposto a perdere tutto pur di fare giustizia. Ma c’è anche un altro personaggio ricorrente: il suo superiore. Una figura ambigua, pavida, spesso ostile, che invece di sostenerlo gli mette i bastoni tra le ruote. È il questore nei polizieschi italiani, il capitano in quelli americani. Cambia il nome, ma non il ruolo: bloccare, rallentare, insabbiare. Questo superiore agisce sempre per tutelare interessi superiori. C’è chi lo fa per convenienza, chi per paura, chi perché risponde a pressioni politiche. È l’uomo di mezzo, quello che riceve telefonate da politici, imprenditori, notabili locali che si lamentano dell’eccessiva intraprendenza del bravo poliziotto. E lui, immancabilmente, ordina di fermarsi. Anche quando le prove sono evidenti. Anche quando si è a un passo dalla verità.

Ora, tutto questo – lo sappiamo – non è solo fiction. È la fotografia fedele di un sistema. E Cosenza non fa eccezione. Anzi, ne è uno degli esempi più evidenti. A Cosenza, da anni, si susseguono questori “a scadenza”. L’obiettivo è sempre lo stesso: non permettere a nessuno di mettere radici nel lato oscuro della questura. Un questore che sa di restare poco non si mette a scavare dove non deve. Non approfondisce indagini scomode, non dà seguito a denunce che sfiorano i poteri locali. Negli ultimi nove anni sono passati in quattro: Luigi Liguori, Giovanna Petrocca, Michele Maria Spina e, attualmente, Giuseppe Cannizzaro. Ma anche per lui è solo questione di mesi. A Cosenza funziona così: permanenza media poco oltre i due anni, poi via, verso sedi più tranquille, promozioni, pensioni d’oro.

Per questo, Cosenza è considerata una sede scomoda, e il premio deve essere adeguato. La questura di Cosenza è un campo minato: problemi strutturali, dinamiche incancrenite, dirigenti storici che dettano legge, e troppi scheletri negli armadietti. Il clima è teso, instabile. Nessuno vuole trovarsi lì quando un segreto esplode. Ecco perché il sistema seleziona con cura. Il questore che arriva deve garantire una sola cosa: che tutto resti chiuso. Nessuna sorpresa, nessuno scandalo. Un periodo breve, ordinario, anonimo. Se fila tutto liscio, arriva il premio. Altrimenti, si rischia grosso.

Come accadde con Giovanna Petrocca, la più longeva del gruppo. Le avevano promesso una promozione, così da assicurarle una pensione più cospicua. Ma il suo mandato, che doveva rappresentare il punto di svolta, si trasformò in un disastro. La questura sprofondò ancora di più nel caos: fughe di materiale investigativo, ricatti interni ai danni del capo della Mobile, sparizioni di prove e denaro. Tutto scoperto da noi. Tutto insabbiato da loro.
Chi l’aveva piazzata su quella sedia dovette fare marcia indietro. Altro che promozione: pensione anticipata, e via. Ma prima, per salvare la faccia, le organizzarono una finta operazione spettacolare, utile a cucirle addosso l’immagine della questora inflessibile, cacciatrice di mafie e massoni. Una messinscena per mascherare le falle investigative, la superficialità, la compromissione di intere indagini. E così, l’operazione-farsa si concluse con l’arresto dell’allora prefetto Paola Galeone. Che pure avrà avuto le sue responsabilità, ma è evidente che fu vittima di una trappola costruita con cura. Il classico caso da manuale: “Se vieni in quel bar, ti regalo dieci dosi di eroina”. Quando si conosce la fragilità di una persona, istigarla è fin troppo facile.
E se lo dici a un tossicodipendente, il confine tra reato e istigazione si fa sottilissimo. La Galeone fu provocata scientemente, manovrata, incastrata. Ma questa, si dirà, è un’altra storia.

A quel punto, diventava difficile trovare qualcuno disposto ad accettare la patata bollente. Ma si sa: le promesse hanno sempre un amo. E un pesce che abbocca si trova.
Così, arriva Michele Maria Spina, il più “a scadenza” di tutti. Si insedia nel pieno della tempesta lasciata dalla Petrocca. Conosce tutto: le fughe di notizie, i ricatti, i silenzi. E infatti promette di “fare chiarezza”. Ma poi, la chiarezza la cerca altrove.
Invece di dare la caccia alla talpa che passa materiali riservati a massoni e delinquenti, mobilita gli uffici per trovare “l’informatore” – cioè colui che, secondo lui, ci avrebbe ispirato un articolo sugli straordinari gonfiati dei dirigenti.
Della vera talpa, dei ricatti interni? Nessun interesse. Non erano affari suoi. Lui era lì solo per un anno. Perché impelagarsi? In fondo, Michele Maria Spina è la perfetta incarnazione del questore da fiction: elegante, misurato, formalmente irreprensibile. Il poliziotto che appare ma non incide, che promette ma non approfondisce, che tiene tutto sotto controllo solo in superficie. Un ruolo da comparsa, ma con il posto assicurato nei titoli di coda. E, alla fine, esasperato dalla situazione, decide di mollare. Va in pensione volontariamente. Un passo indietro discreto, come da copione.

Oggi, sul palco è rimasto Giuseppe Cannizzaro. Anche lui deve sopportare il calvario dei due anni canonici, prima di poter raccogliere i benefici promessi. Ma anche per lui, come per i predecessori, qualche scheletro ha già iniziato a uscire. E così, il suo ruolo da questore in nome della Giustizia e della Costituzione si è sfaldato in fretta.

E per meglio rendere l’idea citiamo una scena realmente accaduta nell’ufficio del questore Cannizzaro che non ha nulla da invidiare a quelle che vediamo nelle fiction.
Il presidente del Consiglio comunale, Giuseppe Mazzuca, ha appena finto di “autodenunciarsi” davanti alla polizia giudiziaria, dicendo di essere stato avvicinato da un emissario dei clan. Lo avrebbero invitato a segurilo in un bar cittadino per incontrare un boss noto. Il perché Mazzuca lo abbia fatto lo abbiamo spiegato, lo abbiamo scoperto: era solito partecipare a incontri di quel tipo. Ha deciso di confessare preventivamente, nella speranza di costruirsi un alibi. Una mossa studiata per anticipare lo scandalo e neutralizzarne l’impatto.

Ma resta il fatto: Mazzuca deposita un verbale videoregistrato, dove afferma che il Comune di Cosenza è infiltrato dalla ’ndrangheta. Una bomba. Roba da far tremare le istituzioni. Ma non il questore Cannizzaro. Chiama subito il sindaco Franz Caruso, prima ancora dell’autorità giudiziaria, come sarebbe stato suo dovere fare.
Convoca il sindaco Franz Caruso, chiamato in causa da Mazzuca sul fatto che era al corrente di questi avvicinamenti, nel suo ufficio, la mattina successiva alla deposizione.
Lo informa di tutto e della gravità della situazione. Mazzuca dice che il sindaco sapeva. E giustificare il motivo per cui non avesse immediatamente informato l’autorità giudiziaria diventa complicato. Potrebbe essere letto come complicità.

Un incontro non ufficiale, mascherato da visita di cortesia. In tanti hanno visto entrare il sindaco in quell’ufficio. A Cannizzaro preme solo una cosa: avvisare il sindaco e trovare una soluzione per ricacciare lo scheletro nell’armadio. E così è stato.
Della deposizione di Mazzuca – chiara, netta, inequivocabile – si sono perse le tracce. Proprio come nelle fiction. Insabbiare, nascondere: questo è il ruolo che, come da copione, è stato affidato a Cannizzaro. E lui, va detto, ha recitato alla perfezione la sua parte. Ma gli scheletri continuano a bussare. Succede che un ispettore della digos venga minacciato con modalità tipicamente mafiose: due proiettili e una lettera minatoria lasciati sulla sua auto. Il presunto autore? Un altro poliziotto.
Anche qui: tutto insabbiato, tutto sparito. Di questa inchiesta non è rimasta neanche l’ombra. E allora: se questo non è il comportamento da questore da fiction, chi lo incarna meglio? Sì, Cosenza è come una fiction. Ma triste. Monca.
Dove il questore vigliacco c’è sempre, puntuale come un orologio svizzero. Ma manca il protagonista vero. Manca il poliziotto che non si piega. Manca l’eroe, anche solitario, che prova a scardinare il sistema dall’interno. Senza offesa per nessuno…