Cosenza, “tante maschere e pochi volti”

A Cosenza l’ipocrisia non è un vizio. È una virtù socialmente accettata. È la chiave per stare a galla in un sistema che non ammette altro se non la doppiezza. La doppiezza paga, la sincerità no. Fingere diventa l’unico modo per sopravvivere in una società come quella cosentina, che non mostra mai il suo vero volto. Fingere rispetto, quando in realtà si prova disprezzo. Fingere amicizia, quando si coltiva l’invidia. Fingere lealtà, mentre si tramano coltellate dietro le spalle. Cosenza, “tante maschere e pochi volti”. Del resto, si sa: la falsità non ama mostrare il suo vero volto. Saper indossare la giusta maschera in ogni occasione è la prima regola per sopravvivere in questa città. Qui non conta chi realmente sei e cosa sai fare: per costruirsi un’esistenza bisogna imparare sin da piccoli a fare buon viso a cattivo gioco. Fare l’amico di tutti, specie dei potenti che vincono sempre, conviene alla sacchetta e al quieto vivere. E così, l’ipocrisia diventa il vero capitale sociale di Cosenza. L’unica moneta in grado di garantire ottimi acquisti, ma anche la zeppa che non fa chiudere nessuna porta. E solo Dio sa quanto è vitale, qui, avere una porta a cui bussare.

A Cosenza la gente parla, commenta, giudica. Ma solo quando non ci sono orecchie indiscrete ad ascoltarla. Critica se il contesto critica, loda se il contesto loda, anche se in cuor suo non condivide. Tutti sanno come adeguarsi all’ambiente, come mimetizzarsi per non disturbare. Perché essere autentici, qui, è un lusso che pochi si possono permettere. E questo continuo mimetismo è la prova più chiara che la doppia faccia è una vera e propria specialità di casa nostra.

Quanti si scagliano contro la politica corrotta e poi vanno a bussare alla porta dell’assessore per un favore? Quanti si proclamano “contro le mafie”, salvo poi festeggiare nei locali dei mafiosi, mangiare nei ristoranti dei prestanome, comprare case costruite con mattoni di cocaina? Ma guai a dirlo: la verità a Cosenza è sempre scomoda. È sempre “troppo”. È sempre un attacco personale. Perché l’ipocrisia qui ha una funzione precisa: nascondere il fallimento collettivo sotto una patina di normalità. Ed è proprio su questa finta normalità che l’ipocrisia trova terreno fertile per manifestarsi con più forza, soprattutto quando si tratta di prendere posizione. E tutti hanno imparato che a Cosenza il silenzio è più comodo della verità, e l’equidistanza l’unica forma di autodifesa. Nessuno vuole esporsi, nessuno vuole rischiare di inimicarsi qualcuno. E allora, invece di isolare il corrotto, lo si applaude. Invece di denunciare il malaffare, lo si normalizza. Il politico disonesto viene trattato con deferenza, lo spacciatore noto con rispetto, l’affarista intrallazzato con una pacca sulla spalla. Il furbone diventa “uno sveglio”, il colluso “una persona che sa come muoversi”. In privato si borbotta, ma in pubblico si stringono mani, si fanno sorrisi, si coltiva la pace di facciata.

Perché a Cosenza la cosa più pericolosa non è il malaffare, ma chi lo mette in discussione. Esporsi è un gesto raro, quasi sospetto. Meglio galleggiare, restare nel mezzo: i nemici non sono mai cosa buona. In questo clima, l’ipocrisia non è solo una postura sociale — diventa una strategia personale. Una forma di adattamento. Perché chi non la pratica, a Cosenza, viene visto come un ingenuo, un pazzo, uno che “non si sa regolare”. L’ipocrita, invece, è furbo, è scaltro, “ci sa fare”. È quello che riesce a stare ovunque senza mai schierarsi davvero, a parlare con tutti senza mai dire niente. È quello che nei salotti difende la legalità e poi nei corridoi sussurra complicità. È quello che si indigna a comando, solo quando conviene, solo quando serve a ripulirsi la coscienza o a guadagnare un applauso. A Cosenza l’ipocrisia ha imparato a vestirsi bene, a usare le parole giuste, a frequentare i giusti ambienti, a parlare di “valori” con la stessa leggerezza con cui si cambia camicia. È diventata un’arte, una scienza, un meccanismo perfetto. E guai a chi prova a spezzarlo.Perché a Cosenza, più della verità, si teme chi ha il coraggio di dirla.