Crotone, ombre sullo Scida

Ombre sullo Scida

Fonte: U’Ruccularu

È notte a Crotone. Lo stadio Ezio Scida è vuoto, le luci spente, il vento che scivola tra le gradinate porta con sé i fantasmi di partite passate e le voci catturate dalle intercettazioni. Voci che raccontano di biglietti regalati ai clan, steward chiamati “i ragazzi miei”, nipoti di boss che decidono chi entra e chi no.
Non è un romanzo nero, ma la realtà che ha portato il Tribunale di Catanzaro a disporre l’amministrazione giudiziaria per un anno nei confronti della FC Crotone s.r.l., società di Serie C, “assoggettata” – scrivono i giudici – alle pressioni della ‘ndrangheta.
Intanto da piazza della resistenza continua la campagna elettorale del sindaco Voce, ma sulla vicenda nessun comunicato stampa.

IL PROVVEDIMENTO E L’INCHIESTA
Tutto nasce dall’inchiesta “Glicine-Acheronte”, coordinata dalla DDA di Catanzaro e sostenuta dalla DNA e dalla Questura di Crotone. Nelle carte, i magistrati parlano di “sufficienti indizi” per ritenere che, nell’ultimo decennio, l’attività economica e imprenditoriale del Crotone Calcio sia stata “direttamente o indirettamente sottoposta a condizioni di intimidazione e assoggettamento” da parte delle cosche locali.
Due i nomi che ritornano: la cosca Vrenna-Corigliano-Bonaventura, storicamente radicata nel capoluogo, e la cosca Megna di Papanice, guidata dal boss Domenico “Micu” Megna, subentrata quando i primi hanno perso terreno. Lo stadio e la squadra diventano bottino, simbolo e strumento.
Il Tribunale ha scelto la via dell’articolo 34 del Codice Antimafia: non un sequestro punitivo, ma una misura “per liberare la società dalle condizioni di condizionamento esterno”, permettendole di continuare a esistere. Ma la fotografia che esce dalle carte è impietosa.

I VRENNA, TRA ACCUSE E ASSOLUZIONI
La famiglia Vrenna è il cuore pulsante della società: Raffaele, 67 anni, Giovanni, 65, e il figlio Raffaele junior, 36, direttore generale. Già in passato i loro nomi erano entrati nei fascicoli giudiziari.
Gli stessi sono anche i titolari della Sovreco, discarica al centro degli interessi per lo smaltimento dei rifiuti dell’area SIN.
Nell’operazione Puma, Raffaele Vrenna fu arrestato e condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa. In appello arrivò l’assoluzione, confermata dalla Cassazione che però dispose un nuovo processo sul residuo reato di falso aggravato, poi prescritto. In quel fascicolo emersero contatti con la cosca Maesano per un progetto edilizio a Praialonga.
I giudici oggi precisano: la vicinanza dei fratelli Vrenna agli ambienti criminali è rimasta “allo stadio della contiguità”, una sorta di patto tacito per mantenere “tranquillità ambientale”. Non complicità diretta, ma un sistema di equilibri in cui la società ha accettato la presenza ingombrante dei clan pur di sopravvivere.

I PENTITI E LE VOCI DALL’INTERNO
Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia hanno illuminato i lati più oscuri della vicenda.
Luigi Bonaventura, ex reggente della cosca omonima, racconta di aver gestito la security del Crotone Calcio: dai biglietti regalati ai boss agli ingressi gratis, fino alle pressioni sulla tifoseria organizzata. “Problemi che gli ho risolto io” dice ai magistrati. Ma aggiunge: “Ho stretto dirigenti, comprato calciatori per falsare risultati, aggredito chi non sposava l’ideologia della società facente capo a Vrenna”.
Il pentito Francesco Oliverio parla di biglietti, sciarpe e trasferte gestite dagli ultrà per conto dei clan.
Massimo Colosimo, ex Trapasso, conferma i rapporti tra i Vrenna e i “papaniciari”.
E c’è persino Giuseppe Vrenna, nipote del capostipite Luigi “U Zirru”, che ricorda come i fratelli Vrenna lo abbiano sostenuto economicamente e con posti di lavoro per garantirsi la pace con i clan. “Gli dava i soldi perché poi gli guardava il campo”.
Un quadro dove la criminalità non solo entrava allo stadio, ma decideva gerarchie, distribuiva favori, controllava la piazza.

LA CATENA DELLA SECURITY: il gioco delle tre carte
Il nodo più evidente è la gestione della vigilanza allo stadio Ezio Scida.
Dal 2012, il servizio passa di mano in mano: The Lions Service di Pierpaolo Catanzaro (uomo vicino ai Megna), poi la Seral di Crotone con Sandro Megna Oliverio (assolto in Glicine-Acheronte ma sempre orbitante nel giro), e infine la Polservice srl.
Stesse società? No. Stessi dipendenti? Spesso sì. Un passaggio continuo di personale che per gli inquirenti rappresenta “un forte elemento di collegamento”. A confermare il sospetto, le intercettazioni.
Il nipote del boss, Mario Megna, viene intercettato mentre dà ordini su come schierare la security per evitare controlli delle forze dell’ordine. Condannato a 16 anni, era diventato il vero regista: decideva chi vigilava, chi entrava e come limitare i controlli. Il clan schierava gli steward, la società taceva.

L’OMBRA LUNGA DEGLI STEWARD
Nelle carte compare il nome di Sandro Oliverio Megna, ex dipendente del Crotone Calcio, diventato responsabile degli steward e formatore. Un uomo che si muoveva tra il club e le società di vigilanza, sempre al centro del sistema.
Al suo fianco, altri nomi noti alle cronache: Gaetano Russo e Maurizio Del Poggetto, quest’ultimo condannato a 12 anni con rito abbreviato. Non erano figure marginali: erano le braccia che garantivano il controllo degli accessi, i biglietti, la gestione delle tribune. Tutto ciò che, in uno stadio, significa potere.

LA LEGALITÀ DI FACCIATA
Questo è il punto più inquietante: formalmente, ogni passaggio sembrava rispettare la legge. C’era un registro delle imprese, c’erano licenze, c’erano contratti. Ma era una legalità solo di facciata.
Dietro le carte bollate, le società si scioglievano e si ricomponevano come sabbia tra le dita, senza mai spezzare il filo che teneva in mano i clan.
Un camuffamento perfetto: cambiavano i nomi, restava il potere. Cambiavano le insegne, restavano gli stessi steward. Cambiavano le firme, ma le decisioni continuavano a passare per le stesse famiglie.
Un mosaico che combacia troppo bene: ogni società, ogni licenza, ogni dipendente confermava un’unica regia. La ‘ndrangheta blindava lo Scida come fosse un fortino.
Un sistema tanto più difficile da smascherare perché indossava la maschera della regolarità. E in questo paradosso sta la vera forza delle cosche: non negare la legge, ma piegarla, trasformarla in un paravento dietro cui fare i propri affari.

IL TIFO TRADITO
Lo Scida, tempio della passione popolare, si trasforma così in teatro di imposizioni criminali. I clan gestiscono biglietti, sciarpe, trasferte.
In un’intercettazione, Cesare Carvelli, condannato a 6 anni e 8 mesi e autista della squadra nel 2016/2017, dice: “Se ti vuoi vedere la partita devi andare a parlare con Mico Megna”. Un derby, una partita di cartello, diventano affari di cosca.
La curva, che dovrebbe essere cuore pulsante di identità e appartenenza, diventa invece merce di scambio. E il calcio, anziché veicolo di riscatto sociale, si piega a strumento di controllo del territorio.

IL SISTEMA CROTONE: calcio, politica, acqua, cemento
Il provvedimento sul Crotone Calcio è solo l’ultimo tassello.
Crotone è una città dove lo sport, il lavoro, l’acqua e il cemento diventano campi di battaglia tra clan, politica e istituzioni. La piscina olimpionica, chiusa e contesa da anni tra società rivali, è naufragata tra debiti e silenzi istituzionali. Il PSC, il piano urbanistico, ha cancellato aree verdi per favorire palazzinari e cooperative “amiche”. L’acqua, passata da Congesi a Sorical, è diventata un terreno di rincari, esposti e proteste.
Ogni ambito della vita pubblica crotonese sembra esposto al rischio di “infiltrazioni” o di complicità passive. E spesso il confine tra politica incapace e criminalità organizzata si fa sottile, quasi invisibile.
Stride il silenzio da parte delle istituzioni alla notizia di intervento da parte della direzione distrettuale antimafia sul Crotone calcio e la gestione dello stadio di proprietà comunale.

LA DOMANDA E LA DENUNCIA
Ora la società calcistica è sotto amministrazione giudiziaria. Continuerà a giocare, ma con un occhio fisso dei magistrati su conti e rapporti.
Resta però la domanda: è possibile liberare davvero un club e una città quando il potere delle cosche si infiltra nelle pieghe di ogni settore?
E resta anche la denuncia: a Crotone, la passione più pura – il calcio, la squadra che ha fatto sognare la Serie A – è stata piegata alle logiche del controllo mafioso.
E finché questo nodo non verrà sciolto, la città resterà ostaggio delle sue stesse ombre.