Daniele Lamanna, esponente di spicco del clan “Rango-Zingari”, è stato arrestato il 26 marzo scorso a Trenta dopo quattro mesi di latitanza.
Lamanna era sfuggito a un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Dda di Catanzaro nel novembre 2014 contro il clan “Rango-Zingari”. Ma nei mesi scorsi ne ha ricevuto un’altra in riferimento all’omicidio di Luca Bruni, il figlio del boss “Bella bella”, ammazzato il 3 gennaio 2012. Per l’omicidio di Luca Bruni poliziotti e carabinieri hanno arrestato anche Maurizio Rango, 38 anni, e Franco Bruzzese (47), ritenuti “reggenti” della cosca egemone in provincia di Cosenza.
Ad accusare Daniele Lamanna di questo delitto – di cui lui sarebbe esecutore materiale – è stato il collaboratore di giustizia Adolfo Foggetti. E nel corso dell’interrogatorio di garanzia, Lamanna ha puntato il dito proprio contro Foggetti, che – a suo dire – si sarebbe inventato tutto. «Non avevo alcun interesse a uccidere Luca Bruni perché lo conoscevo da tempo e si conoscevano le famiglie. Non avevo neanche alcun interesse economico a farlo».
Sempre durante il suo interrogatorio, l’ex latitante ha definito Foggetti «inaffidabile» e il suo racconto pieno di «illogicità». Ha aggiunto che il giorno del delitto Bruni non era assieme a Foggetti ma ad altre persone in un altro luogo. Ha spiegato inoltre di essersi dato alla latitanza proprio per non subire di nuovo un’ingiusta detenzione e di aver poi deciso di costituirsi. Sarebbe stato questo il motivo per il quale stava salutando il figlio.
Lamanna è stato trovato in un’abitazione in uso al suocero, in un paesino dell’hinterland bruzio. Era lì di passaggio, sostengono gli inquirenti, che lo hanno scovato in compagnia del suocero e di suo figlio, un bambino di nove anni. Al momento dell’irruzione il piccolo è stato fatto subito allontanare assieme al nonno. Aveva in tasca una pistola calibro 7.65 con colpo in canna. Secondo quanto riferito dagli inquirenti in conferenza stampa, il presunto boss avrebbe avuto timore principalmente dei dissidi interni alla cosca, per questo era armato. A tradire la sua latitanza l’eccessiva accortezza dei familiari, i cui spostamenti troppo “prudenti” hanno destato sospetto nelle forze dell’ordine.
Fin qui la cronaca strettamente “giudiziaria” della notizia.
Gli aspetti che non emergono, anche perché la procura e le forze dell’ordine non darebbero mai il via libera, riguardano non tanto l’attendibilità della difesa di Lamanna quanto la stucchevole finzione che ci viene propinata.
Non è davvero difficile immaginare che Lamanna sia nelle mani della polizia cosentina. In primis, perché tutti lo stavano cercando per vendicarsi. In secondo luogo, perché non aveva nessuna possibilità di sottrarsi a qualche abbraccio mortale, tanto per usare un eufemismo. Di conseguenza, non ha altra scelta che collaborare con la giustizia.
Lo stesso, scontato rito che a Cosenza conosciamo da quando è iniziata l’era dei pentiti.
La circostanza paradossale e grottesca, quasi ai limiti del ridicolo, è che uno dei legali di Daniele Lamanna (almeno fino a pochi mesi fa) è stato l’avvocato Marcello Manna, tra l’altro anche sindaco di Rende.
Come tutti sanno, Manna figura nei verbali del pentito Foggetti e sarebbe gravissimo se il sindaco-avvocato fosse ancora in contatto con quello che, ormai, viene definito come il prossimo pentito della ‘ndrangheta cosentina. Anche se adesso a difendere Lamanna, come da consolidato copione, resterà sicuramente qualcun altro. E noi siamo pronti ad ascoltare eventuali dichiarazioni rispetto alla vicenda di Daniele Lamanna.
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