Joggi è la frazione di Santa Caterina Albanese, in provincia di Cosenza, dove è nato e cresciuto il cantautore Dario Brunori. Joggi un tempo era nota per le fornaci. La Brunori Sas era infatti la fabbrica di mattoni che dava lavoro a gran parte della popolazione. Oggi conta pochissimi residenti (un centinaio) ma un festival musicale voluto da un gruppo di ragazzi – che ormai ha superato la ventesima edizione – sta riportando vita e stimoli nella zona richiamando un pubblico sempre più vasto e artisti da tutta Italia, da Bobo Rondelli al Piotta oltre allo stesso Brunori Sas. Il Joggi Avant Folk si tiene ogni anno subito dopo Ferragosto.
Di questo e di altro si parla in questa bellissima intervista realizzata meno di due anni fa dal giornalista cosentino Antonio D’Orrico, firma di prestigio del Corriere della Sera, che spiega meglio di chiunque altro il mondo di Dario Brunori.
13 AGOSTO 2023
di Antonio D’Orrico
Dario Brunori, da ragazzino un giorno lei anagrammò il suo nome e cognome.
«Venne fuori “un raro ibrido”. Ed è vero: sono figlio del Nord e del Sud, padre romagnolo e mamma cosentina».
Come capitò suo padre in Calabria?
«Mio nonno, tecnico di altiforni, fu chiamato per un lavoro a Ioggi, un paese microscopico in provincia di Cosenza. L’estate ci portò i figli in vacanza. Era il 1952 e babbo, che aveva diciotto anni, decise di rimanere».
Come mai un giovanotto degli Anni 50 lasciò la Romagna per il Sud?
«Perché si trovò bene. In quanto forestiero attirava le donne come una calamita. Gli sembrò di essere capitato in paradiso».
Qual è il cognome di sua madre, cosentina come me?
«Giacomantonio».
Si chiama così il Conservatorio di Cosenza.
«Non è un caso, il compositore Stanislao Giacomantonio era il nonno di mamma».
Lei è cantautore nel DNA.
«Un po’ sì. Mamma era maestra di musica e cantante diplomata. La musica era di casa. C’erano strumenti ovunque».
Anche suo padre era musicista?
«Lui faceva i mattoni. Ho preso il mio pseudonimo dalla sua ditta, la Brunori Sas, società in accomandita semplice».
In casa usavate il dialetto?
«No, perché mio padre non lo parlava. In famiglia la lingua ufficiale era l’italiano. Ma fuori casa si parlava in dialetto. Sono vissuto con l’idea che ci fossero due mondi, quello dell’italiano e quello del cosentino».
Fu un problema?
«Le faccio un esempio. Babbo ci teneva che lo chiamassi così invece che papà come facevano tutti gli altri bambini di Joggi. Per loro la parola babbo era sconosciuta se non sospetta».
Immagino che la cosa fosse fonte di feroci prese in giro.
«Non immagina quanto, ma non immagina certo che anche io adesso mi faccio chiamare babbo da mia figlia».
E perché dopo tutto quello che ha passato?
«Proprio perché ho patito quella sofferenza, penso che sia giusto la patisca anche lei. Se c’è una cosa che possiamo lasciare in eredità ai nostri figli è la sofferenza».
(Avverto il lettore che Brunori sta usando la sua famigerata ironia, però la usa con tale impassibilità che non ne sono poi tanto sicuro).
È vero che a Joggi quando litigava con un altro bambino lo insultava dicendogli: «Sciocco di un fiorellino stracciato»?
«Non me lo dica anche lei come se fosse una cosa riprovevole».
Tutt’altro. Quanti anni aveva?
«Cinque, non ero ancora in prima elementare quando mi capitava di sbroccare con un amichetto strillandogli “Sciocco di un fiorellino stracciato”».
Nella patria della ferocissima ‘ndrangheta un’ingiuria così floreale, di forbitezza shakespeariana.
«Grazie per l’apprezzamento ma i miei compagni di allora non la pensavano come lei. Quando parlavo in italiano mi zittivano, se erano in buona, dicendomi “Brunò, un fa tantu ‘u filosofo”».
Altri problemi causati dalla differenza tra cultura materna e paterna?
«Il ragù. Il ragù alla calabrese è cosa radicalmente diversa dal ragù alla bolognese. Non per fare il filosofo ma si tratta di concezioni agli antipodi».
Sua madre contaminava le due ricette?
«Macché, le faceva entrambe. Vivevamo una sorta di Natale misto con cucina calabrese e romagnola. Un Natale doppio. E non succedeva solo a Natale. È una cosa che ho pagato e il prezzo lo può vedere dal mio sovrappeso. Tenere testa a due culture è difficile. Però mi ha permesso di guardare alla Calabria da due punti di vista: quello sentimentale di mamma e quello obiettivo di babbo. Ho una visione equilibrata della mia patria, innamorata ma nello stesso tempo critica».
Le ricordo che dobbiamo parlare (possibilmente bene) di Catanzaro, la capitale della Calabria, e magari anche di Reggio, per non scadere nella reunion di cosentini.
«Noi di Cosenza che parliamo (bene) di Catanzaro, la vedo dura».
Quanti abitanti faceva Joggi?
«Allora quattrocento, ora un centinaio. Fu uno choc quando ci spostammo a Guardia Piemontese che d’inverno faceva più di mille abitanti e d’estate, con i turisti e i villeggianti, arrivava a ventimila. A venire erano soprattutto napoletani. Mi ricordo la loro grande energia, la loro grande vitalità e il fatto che ci portarono Pino Daniele, James Senese e, musica a parte, Troisi, De Crescenzo, Eduardo De Filippo. Riferimenti decisivi per me. La napoletanità nei suoi estremi mi ha sempre affascinato».
Uno dei suoi pezzi più belli, il suo primo grande successo, è Guardia ‘82 , quello in cui le fa rimare sport con Bearzot, il racconto struggente dell’estate in cui lei aveva cinque anni e giocava, immemore di ogni altra dimensione, sulla spiaggia di fronte allo Scoglio della Regina.
«Guardia ‘82 è diventata la mia Albachiara, la canzone che Vasco Rossi non può non cantare nei concerti. Me la chiedono sempre, anche lontano dalla Calabria. Mi riempie di orgoglio il pubblico di Varese quando canta assieme a me “La spiaggia di Guardia rovente era piena di gente”. Guardia ‘82 poteva essere Sinigallia ‘82, Volterra ‘82, Riva del Garda ‘82… È una storia calabrese che è una storia di tutti. Una delle cose più belle per chi scrive canzoni è raccontarsi riuscendo, inconsapevolmente, a raccontare almeno una generazione».
Per me Guardia ‘82 è l’inno calabrese e lei il mio Goffredo Mameli. È una canzone che appartiene a un super genere musicale, letterario e cinematografico veramente nazionale, quello dell’estate italiana. Da Sapore di sale al Sorpasso, ad Agostino, a E la chiamano estate …
«Il filone dell’estate mi ha sempre affascinato. Purtroppo, viene guastato sempre più dall’esigenza discografica del singolo estivo, il tormentone di Ferragosto che, per carità, ci può stare ma la vera canzone dell’estate è, secondo me, il racconto malinconico, dolceamaro, di una stagione per certi aspetti terribile. L’estate è la reincarnazione dell’illusione. Viviamo di illusioni destinate a finire e le canzoni dell’estate una volta cantavano questo sentimento. Ora cantano il mojito. E vabbè».
Nel suo pezzo Lamezia Milano, la tratta più frequentata dai calabresi, lei parla dell’applauso che i passeggeri fanno al pilota dopo l’atterraggio, una abitudine che desta sempre l’ilarità dei non calabresi a bordo.
«Quell’applauso, scambiato spesso per arretratezza, tamaraggine, è invece attaccamento alla vita e rivela una ingenuità, un approccio bambino alle cose che mi piace molto e che è sfuggito al rullo compressore della modernità. Ho vissuto gli Anni 80 in Calabria e c’erano cose degli Anni 40, degli Anni 30 ancora vive. Sono grato di essere cresciuto a Ioggi e a Guardia. Il modello di sviluppo che oggi viene tanto criticato qui non ha mai attecchito, non ha inquinato tutto. Nella mia vita ho visto una volta soltanto una balena, si era arenata a Fuscaldo, non lontano da Guardia. A quella balena ho pensato molto e l’ho messa nella canzone I figli della borghesia, dedicata all’edonismo Anni 80, dove dico: “Siamo figli di una balena che ha il cuore piccolo e la bocca enorme”. Quella balena arenata in Calabria è per me la metafora di come il consumismo capitalistico non sia mai riuscito a passare qui. Si è spiaggiato. Il marketing non ha mai funzionato bene in Calabria. È un caso mondiale che gli esperti del settore non riescono a spiegarsi. Noi ce lo spieghiamo molto bene».
Come direbbe il poeta: c’è qualcosa di antico in Calabria, anzi di nuovo.
«Si ragiona sempre di più in termini di aut aut. Passatisti o futuristi, tradizionalisti o super contemporanei che vogliono solo tablet e sushi (anche se il sushi è già superato e ora imperversa il poke e forse, mentre stiamo parlando, è già superato pure il poke). A me piace l’idea che le cose possano convivere. Per questo sono contento di stare in Calabria e che mia figlia cresca qua dove un certo tipo di passato buono esiste ancora, è vivo, non chiuso in un museo».
Conosce la serenata Buonanotte Cosenza di Claudio Villa, per una specie di Com’è triste Venezia cosentina?
«Se la conosco? La scrisse zio Peppino Giacomantonio, che, tra l’altro, creò da zero il Conservatorio di cui dicevamo prima e lo intitolò alla memoria del padre. Ciò nonostante quando io ho, a sette anni, feci l’esame di ammissione al Conservatorio mi bocciarono».
E poi dicono che noi calabresi siamo campioni di familismo amorale.
«Fu una bocciatura giusta. La mia strada non era quella accademica, sono un canzonettaro, un compositore melodista non trascrittore come si diceva alla Siae una volta».
In Ode al cantautore lei racconta che le sue prime interviste radiofoniche vertevano esclusivamente sulla ‘nduja e sul peperoncino.
«Era il periodo della mia, diciamo così, carriera in cui da cantautore quasi sconosciuto ero diventato cantautore semisconosciuto. Gli speaker radiofonici hanno il problema, se hanno di fronte un cantante che secondo loro la gente non conosce, di trovare un terreno facile di intesa. Con i cantautori c’è poi l’aggravante che il personaggio possa essere pesante. “Arriva il cantautore chissà che palle! Dobbiamo mettere una nota simpatica”, si dicono gli speaker. La mia nota simpatica, siccome ero calabrese, era quella di chiedermi, invece delle canzoni, tutto quello che sapevo della ‘nduja, del peperone e del peperoncino».
Il ruolo che la ‘nduja ha avuto negli ultimi anni nell’immagine della Calabria fa impressione. Mai c’è stato un testimonial così potente e persuasivo. Ha surclassato il grande Rino Gattuso, ha surclassato pure Rino Gaetano.
«Sì, ma a noi di Cosenza la ‘nduja ci mette in estrema difficoltà».
Già. Siamo sempre stati per la suprissata, il salume che, quando è veramente buono, lacrima (un segno di autentica calabresità: nelle cose belle c’è sempre un filo di pianto). La ‘nduja, diciamola tutta, è made in Spilinga. Il maggior successo di marketing calabrese è storicamente catanzarese.
«Confessiamolo: della ‘nduja noi cosentini non sapevamo manco l’esistenza, però dobbiamo accettarla, anche se è catanzarese, perché siamo persone che accettano i trionfi come le sconfitte con dignità e classe. E quindi accettiamo la sconfitta del nostro territorio e la vittoria dell’altro territorio. Hanno trovato il packaging giusto per questa terra difficile. Una vittoria per tutta la Calabria».