di Mario Ajello
Fonte: Il Messaggero
Un dramma così scadente, di delirio e di follia, di potere e di rabbia, Shakespeare non lo ha scritto mai. L’epilogo della presidenza di Trump ha qualcosa di macchiettistico e di profondamente inquietante. In linea con un personaggio che in questi anni alla Casa Bianca sembrava poter promettere all’inizio una diversità virtuosa rispetto al politicamente corretto e al tran tran sempre meno professionale della politica americana e che invece è finito, via via, per confermare tutti i pregiudizi che si avevano su di lui. Accuse, insulti, tweet, l’esibita estraneità ad ogni protocollo e a qualsiasi occasione di confronto dentro e fuori dagli States, un abbassamento del rango della presidenza americana e un’incapacità a risultare credibile – «Io me ne infischio di essere credibile agli occhi di chi non ha credibilità fuori dal proprio salottino ininfluente e benpensante», sì è sempre difeso The Donald – che parevano un segno di eccentricità e si stanno rivelando in queste ore cruciali un pericolo per la dignità di quella che viene considerata la massima democrazia del mondo.
L’amico del popolo
«Il popolo è con me», è sempre stato il suo mantra. Ma a dispetto della sconfitta con Biden il mantra è rimasto quello e lo scollamento dalla realtà di un sovrano che non ammette altra sovranità che la propria («Non vi libererete mai di me», disse due mesi fa in modalità Jocker ed è restato fedele a quella minaccia anche se gran parte del suo partito lo ha mollato) sembra la fase suprema del populismo da ultima trincea. Quella da cui i facinorosi che gridano «Fight for Trump!» si muovono per mettere a soqquadro l’America, assaltando a mano armata il Congresso. In un incubo da romanzo apocalittico alla Don Delillo o fantapolitico alla Philip Roth. I leader disperati sono pronti a qualunque pazzia. Ed ecco il caso. E’ fallito tra le mani di Trump lo schema per cui sarebbe dovuta essere la Corte suprema amica a decidere chi si sarebbe insediato alla Casa Bianca, e la delusione sta andando clamorosamente, e non imprevedibilmente, in scena in queste ore. Che fanno dell’America un gigante che traballa agli occhi del mondo il quale, nel bene o nel male, lo ha sempre considerato un pilastro incrollabile.
La Cina come nemico, il Russiagate, il rifiuto di ogni multilateralismo e abbasso l’Europa e viva America First, la convinzione (non errata) che il trumpismo ci sarà anche dopo Trump e infatti la rivincita tra quattro anni è l’ossessione di The Donald, l’esaltazione della paura dei penultimi e la rincorsa del loro consenso contro ogni idea di solidarietà e di pluralità, il virus negato (ma che lo ha contagiato), temere più la povertà che la malattia, la libertà intesa come individualismo senza condizioni e senza limiti, protezionismo e sovranismo, ideologia anti-establishment, rifiuto del politicamente corretto, il non fidarsi delle tivvù (se non dei network a lui favorevoli e che ne hanno creato, vedi la Fox, il mito) ma affidarsi alle fake news che le smentiscono: un po’ alla rinfusa, questo è stato in questi anni il trumpismo. Un’idea del mondo, e dell’America, contagiosa: sennò, il presidente sconfitto non avrebbe ottenuto il seguito record di 74 milioni di voti e di 88 milioni di follower. L’attacco al Congresso questo vuole significare: il trumpismo è vivo a dispetto dei «brogli elettorali» che lo danno per morto. E guai a sottovalutare questa follia più lucida, ma anche più inquietante, di quello che possa apparire. Si è presentato in questi lunghi quattro anni come un uomo fuori dal sistema e il format, se non fosse stato per il Covid mai capito e mal gestito, poteva forse funzionare ancora. E’ questa alternatività che dà forza all’ultima follia di The Donald, che non è purtroppo un film comico come l’impareggiabile Ultima follia di Mel Brooks.
L’identità
La violenza dell’America profonda e singolarmente armata (tranne che di mascherina e infatti nessuno degli assalitori del Congresso la indossa se non altro per non farsi riconoscere) è quella che nel trumpismo si è riconosciuta ma nel richiamo identitario che questo personaggio esercita si condensa anche la rabbia delle masse dimenticate, i forgotten, da chi parla solo di diritti civili per gay e altre minoranze e non di lavoro-lavoro-lavoro e di altri bisogno materiali da solitudine globale della classe media impoverita. Guai insomma a non calarsi criticamente, ma realisticamente, nelle ragioni che hanno fatto di Trump un simbolo. Radicalizzare, spaccare, ideologizzare, puntare sulla trinità Dio, Donald e famiglia, vellicare gli estremismi religiosi degli evangelici e di altre correnti fondamentaliste: il trumpismo è questo. E il progetto per dargli continuità è quello, per The Donald, di una televisione tutta sua (con Murdoch ormai da tempo è rottura), per rimanere ancora sulla scena e e per dare voce al popolo suprematista e di una «mobilitazione permanente» dei suoi seguaci (quello di queste ore è solo l’antipasto) per non dare tregua ai «ladri di democrazia». «Il popolo è arrabbiato più che mai», ha detto l’altro giorno: «E io sono il più arrabbiato di tutti». Al punto di travolgere la dignità della Casa Bianca e di una nazione immeritevole di una vicenda come questa.