E ora vogliamo tutti un autunno caldo: nelle piazze italiane ieri c’era tutto il dissenso per il governo

di Saverio Di Giorno 

Non tutti i giorni finiscono nei libri di storia. Ieri 22 settembre 2025 è invece uno di quelli: che sia l’inizio di un autunno caldo per il governo? Perché non è stata solo una questione di Palestina (non lo è mai stata). Anzi, è la Palestina che non è solo questione di Palestina. C’entrano i commerci, l’economia di sfruttamento. C’entrano i rapporti di potere. C’entrano i diritti.

Non era mai accaduto che una parte delle automobili bloccate applaudissero a chi era seduto sulla strada, che ci si affacciasse dagli uffici per applaudire e sventolare le bandiere palestinesi verso chi sfilava. Non era mai successo che passando tra la folla di curiosi seduti ai bar si sentisse dire: “bravi, bravi”. C’era molto di più del mezzo milione circa sceso in piazza. È successo altro.

D’improvviso è successo qualcosa, è divenuta certezza una realtà che pareva dimenticata; sarà sembrato quasi a portata di mano anche agli stessi organizzatori che si aspettavano 8 mila persone a Roma, 5 mila a Napoli e che se ne sono trovati dieci volte tanti; è divenuto evidente che il sistema economico non è così impalpabile perso tra tecnocrati invisibili, multinazionali senza sedi e collegamenti mondiali. Che il mercato non ha mani invisibili e indici che governano e impongono prezzi e vessazioni. I flussi economici, le linee di commercio passano attraverso mani ben visibili con i guanti da lavoro. Tra i porti, aeroporti e stazioni, transitano pesanti le azioni delle aziende sulle strade e passano i caselli. I turni di lavoro, le paghe, i controlli non sono imposti da filiere infinite nelle quali tutti sono sostituibili e informatici contraccolpi di borsa. Era di colpo evidente che si possono afferrare le linee di commercio, tirare come redini. Il mercato di colpo ha acquistato materia, spessore. Era identificabile. Quindi ostacolabile. La legge della domanda e dell’offerta non è più legge immodificabile. Non c’è nessun sacrificio su sanità istruzione o lavoro da fare per obbedire ai desiderata di un’economia non necessaria che finanzia un genocidio. Di un’economia che ha responsabili ben precisi e ha bisogno di obbedienti.

Palestina la sanità smembrata, Palestina le strade disastrate, Palestina l’istruzione e la ricerca derubate, Palestina è libertà di manifestare sempre più ristretta. No, guardate non è un modo per ridurre tutto all’orticello di casa, né un esercizio di provincialismo. È che la Palestina è diventata terra di scontento e rivendicazione.

C’era estrema lucidità: lo urlavano chiaramente gli slogan che hanno percorso chilometri di strade. Tutto questo era chiaro, evidente come i video da Gaza. Era addirittura semplice come semplice è la spiegazione dei genitori che spiegavano ai figli cosa fosse la Palestina, che così ha detto “un posto dove ci sono altri bambini come te, dove i cattivi gli fanno male e noi vogliamo dire che non siamo cattivi e che devono poter giocare tutti”. E tutti devono poter curarsi, studiare, lavorare. E se non può farlo uno prima o poi non lo potrà farlo nessuno, perché il sistema è uno solo e ha bisogno delle navi che salpano da Genova. Era tutto spiegato sui visi diversi: per età e appartenenza che hanno riempito le piazze. Non solo militanti o sindacati di base, ma anche insegnanti e studenti dalle medie alle università. Medici, disoccupati, lavoratori di ogni comparto dai trasporti alla logistica.

Per le strade c’era il dissenso ad un governo che per seguire le logiche imperialiste americane e sioniste ha deciso di sacrificare ogni diritto e stato sociale, di alzare i finanziamenti in armi, di ritorcere ogni comparto ad economia di guerra, dalla ricerca alla produzione. Per le strade c’era chi si è stancato di una classe dirigente che da mesi e mesi ha deciso di ignorare lo stato in cui versa la popolazione pur di obbedire. Il senso di tutto era estremamente chiaro, fermare la follia di chi vuole una produzione che toglie diritti e sfrutta i lavoratori per finanziare lo sterminio di altri più disperati.

E c’è di più. L’assalto al casello autostradale, l’occupazione delle stazioni e il blocco dei varchi portuali non è solo una sfida alle regole del commercio, un bastone nella ruota apparentemente inarrestabile del ciclo di produzione, ma anche tutti i finti laccioli che questo governo si è inventato: identificazioni, daspo, segnalazioni. Anche questi cancelli sono stati forzati. Semplicemente, non funziona tutto questo con mezzo milione di persone. Non possono essere i “soliti facinorosi” e centri sociali ad arrivare ad un milione: anche la solita retorica appassisce e diventa ridicola. Non è più così facile identificare, sorvegliare come si è fatto con pochi attivisti e giornalisti. Il trasversalismo raggiunto con queste manifestazioni, i legami tra i comparti e i settori della società ora può trasformarsi in rete attiva. Potrebbe davvero essere l’inizio di un autunno molto difficile per il governo italiano e per quelli europei.