Ex pontile Sir, Lamezia Terme: 600 metri di ruggine in mare, lapide al capitalismo di rapina

Ex pontile Sir, Lamezia Terme: 600 metri di ruggine in mare, lapide al capitalismo di rapina

In Calabria. Struttura finanziata nel ’70, dopo le proteste di destra. Soldi buttati, lavoro promesso: è collassata nel 2012. L’ex sindaco: “Nessuno voleva occuparsene”.

Di Tommaso Rodano

Fonte: Il Fatto Quotidiano

La pineta accompagna la strada in silenzio fino al mare. L’asfalto si allunga fin dentro la sabbia come una pista per le biglie. Superato l’ultimo albero, lo sguardo si apre su una spiaggia luminosa, selvatica e abbandonata. Gli occhi abbracciano il Golfo di Sant’Eufemia, la morbida insenatura che per 50 chilometri disegna la costa tirrenica calabrese. In fondo, lontana, la sagoma dell’aeroporto internazionale di Lamezia; di fronte, invece, una figura assurda, un gigantesco equivoco: il pontile ex Sir, monumentale ecomostro d’Italia. Una piattaforma arrugginita, spezzata, semidistrutta, che si allunga nel mare per oltre 600 metri. Un ponte rotto che non porta da nessuna parte.

La prima sezione, sulla spiaggia, è completamente collassata, adagiata dietro una ridicola barriera di mattoni che interrompe la vecchia strada di cemento. Nell’intercapedine tra i detriti arrugginiti, mucchi d’immondizia e bottiglie di birra vuote: qualcuno ci viene a passare il tempo o cercare riparo. Il resto della sagoma, divelta e corrosa, sembra sbucare dal basso, dal fondo del mare. In certi tratti il pontile è ancora intero, in altri restano solo i piloni di sostegno, curvi come archi di una cattedrale ignobile. È un oggetto maestoso, assurdo, non privo di una forma perversa di bellezza. È più di un ecomostro: un monumento alla storia della Calabria, del Sud e del capitalismo italiano.

Per capire come siamo arrivati qui, bisogna tornare all’estate di 55 anni fa. Luglio 1970, Reggio Calabria insorge. Il governo ha assegnato a Catanzaro il titolo di capoluogo regionale: è una ferita simbolica, l’ultimo affronto dello Stato a un territorio piegato da arretratezza e povertà. Si scatena una delle guerriglie urbane più violente dell’Italia repubblicana. Per mesi le strade diventano campo di battaglia: barricate, sassaiole, molotov, attentati, assalti alle istituzioni, carri armati in strada. Quarantatré attentati dinamitardi, undici morti, migliaia di feriti. La chiamano “la rivolta dei boia chi molla”, in prima fila c’è la destra neofascista, guidata dal capopopolo missino Ciccio Franco.

Lo Stato da un lato reprime, dall’altro prova ad ammorbidire. Il governo Colombo – democristiano, lucano, prima al Tesoro e poi a Palazzo Chigi – risponde con una pioggia di denaro pubblico per portare in Calabria le industrie che non ha mai avuto. È un piano gigantesco e fragile; una valanga di miliardi, ma senza alcun progetto di lungo periodo. Doveva distribuire quasi 15 mila posti di lavoro in tutta la Regione, diventerà un fallimento, uno sperpero impossibile persino da quantificare fino in fondo.

“Il denaro pubblico finì al macero per edificare stabilimenti destinati a sfornare prodotti la cui compatibilità con le richieste del mercato e la cui affidabilità per la salute dei consumatori erano messe in forte dubbio da quello stesso Stato che li finanziava”, scrive Alessandro De Virgilio in Pacchetto Colombo (edizioni Rubbettino). De Virgilio, responsabile della redazione calabrese dell’Agi, conosce a fondo gli scempi che ne seguirono: “A Gioia Tauro fu costruito un porto che doveva servire il fantomatico quinto polo siderurgico italiano, non se ne fece nulla (alla fine la fabbrica fu costruita in Brasile). È rimasto inutilizzato per decenni, per fortuna poi è stato recuperato con un’altra funzione. Gli esperimenti della chimica a Saline Joniche e Lamezia Terme, invece, hanno lasciato solo le rovine di complessi industriali mai nati”.

Il pontile, o meglio la carcassa che abbiamo davanti, avrebbe dovuto servire gli impianti della Sir (Società Italia Resine), la creatura di Nino Rovelli, uno dei grandi affabulatori dell’industria italiana del dopoguerra. I terreni della spericolata impresa furono espropriati tra le proteste degli agricoltori, con una promessa roboante: tremila posti di lavoro, un investimento da 230 miliardi di lire attinti dal “Pacchetto Colombo”. Il pontile esagonale doveva servire come banchina di carico e scarico navale per l’impianto, che devastò centinaia di ettari rurali. La Sir e Rovelli furono ribaltati dagli scandali finanziari e dalle inchieste della magistratura, il complesso industriale calabrese non è mai entrato a regime: questo ponte, in tutta la sua storia, non ha visto nemmeno una nave. Resta lì, lapide del capitalismo di rapina: industriali del Nord che si espandono al Sud grazie ad amicizie partitiche e finanziamenti pubblici, con progetti calati dall’alto, senza alcun rapporto col territorio. Tra indagini e sequestri, nessuno ha mai messo mano allo scheletro arrugginito: nemmeno una bonifica. La struttura è collassata nell’autunno del 2012.

È successo durante il governo di Giannetto Speranza, sindaco ex comunista di Lamezia Terme dal 2005 al 2015. Racconta una storia surreale: “Quando fui eletto cercai di capire quale ente fosse responsabile del pontile. Convocai una conferenza dei servizi. Fu un’impresa: ognuno dei soggetti coinvolti – Consorzio industriale, Regione, Capitaneria, Demanio – si sfilava dicendo che non era roba sua. Si conosceva il padre, ma sembrava fosse figlio di nessuno”.

Il gigantesco cadavere dell’industria calabrese rimane disteso tra la sabbia e il mare. Ha reso infrequentabili l’una e l’altro: c’è un divieto di balneazione perpetua. Gli ultimi dati di Goletta Verde, di inizio luglio, registrano concentrazioni di Escherichia coli impressionanti, quasi cento volte superiori al limite di legge. Questo mare è marcio come il sogno di chi ci ha costruito sopra.