La morte di Raffaele Cutolo porta alla memoria inevitabilmente alcune storie che riguardano anche la città di Cosenza. Perché il boss della camorra aveva avuto rapporti con Franco Pino, prima boss, poi pentito e adesso “libero” cittadino. Tra le tante menzogne dispensate da Pino in questi lunghi anni non c’è dubbio che ci siano quelle legate all’omicidio dell’avvocato Silvio Sesti avvenuto a Cosenza nel 1982. Pino disse che lui non c’entrava niente (!) e che il mandante era un certo Nelso Basile di San Lucido e che i killer venivano direttamente da Napoli mandati addirittura da don Raffaè… Ma tanto bastò per il porto delle nebbie di Cosenza, con il quale aveva stretto un patto d’acciaio. Ecco allora perché è importante raccontare la storia vera e non affidarla alle bugie del “sostituto anziano” del porto delle nebbie.
A Cosenza la revoca del programma di protezione a Franco Pino ha segnato la fine di un’epoca.
La stagione del pentitismo, inaugurata 25 anni fa proprio dal boss dagli occhi di ghiaccio, ha lasciato solo macerie e non ha fatto giustizia in nessun caso. Ha generato solo una folle corsa (che continua tuttora) ai benefici offerti dallo stato e non ha mai toccato, come invece poteva e doveva essere, i livelli dei “colletti bianchi” e dei politici, che continuano a delinquere come se nulla fosse.
D’altra parte, se ci guardiamo alle spalle, non possiamo non rilevare che dopo il pentimento di Franco Pino e di tutti gli altri, il processo Garden diventò una vera e propria barzelletta e si chiuse il 9 giugno del 1997 con la miseria di soli 4 ergastoli, comminati peraltro a gente che non si è mai pentita e ha finito per pagare per tutti. Parliamo di Franco Perna, l’unico vero boss di Cosenza, del suo braccio destro Antonio Musacco, di Mario Baratta e di Domenico Cicero.
Per il resto, è meglio stendere un velo pietoso. L’impianto accusatorio, al contrario di quanto disse il pm Stefano Tocci, non solo non resse ma venne svuotato di ogni contenuto dal ritmo infernale dei pentimenti, dell’inquinamento delle prove, delle accuse incrociate, dell’attivismo di alcuni penalisti cosentini (tra i quali Marcello Manna ebbe il primato assoluto) che erano contemporaneamente difensori dei nuovi pentiti e dei picciotti che venivano accusati dagli infami. Un caos di dimensioni enormi.
Il processo Garden si è concluso con 49 assoluzioni e 67 condanne (4 ergastoli e altre pene complessivamente miti) e rappresenta uno dei più grandi bluff della storia della giustizia, non solo cosentina. E ha lasciato insoluto uno dei gialli più avvincenti della storia criminale cosentina, un classico Cold Case, quello relativo all’uccisione dell’avvocato Silvio Sesti, fra i più noti penalisti cosentini, avvenuta il 21 giugno 1982 (esattamente due anni dopo l’uccisione di Giannino Losardo a Fuscaldo, un altro Cold Case della nostra realtà) nello studio del professionista in via Alimena a colpi di arma da fuoco.
La storia ufficiale della città attribuisce l’omicidio a Franco Pino, che avrebbe mandato a Cosenza due elementi della camorra cutoliana. Un teorema accusatorio, descritto da due pentiti manovrati come Pagano e De Rose, così debole che non ha mai trovato nessuno pronto a condividerlo. La storia ufficiale ci dice che Sesti difendeva i picciotti di tutti e due i clan in guerra e la circostanza non piaceva più al clan Pino. Ma non era così. La vedova e il figlio del professionista hanno cercato in tutti i modi giustizia ma nessuno li ha mai ascoltati. Hanno provato a dire di aver più volte sentito dire per telefono al loro congiunto di aver sempre agito nella massima onestà professionale. Ma non c’è stato niente da fare.
Tanto che Franco Pino, il principe dei pentiti per la procura, non è mai stato condannato per questo delitto, accusato invece a Nelso Basile di San Lucido, ormai defunto, e a due fantomatici killer napoletani che forse non sapevano nemmeno cos’era successo.
Morale della favola: tutti assolti. In perfetto stile procura di Cosenza. L’avvocato ingombrante non avrebbe dato più fastidio, in tanti avrebbero preso i suoi clienti e tutti vissero felici e contenti.
L’ispezione ministeriale del 2005 scrive per la prima volta in maniera chiara la verità.
“… La gestione degli affari giudiziari di Cosenza – racconta il magistrato Otello Lupacchini nella sua relazione – era problematica già da prima che si costituisse la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Il momento di emersione dei disagi può farsi coincidere con la guerra di mafia scatenatasi nel 1977 e proseguita fino al 1985. Tale problematica di rapporti si aggravò ulteriormente a seguito dell’omicidio dell’avvocato Silvio Sesti, che determinò l’occupazione del proscenio da parte di una ristretta cerchia di avvocati, che si appropriarono dello spazio lasciato libero dal collega assassinato. Mentre l’avvocato Sesti era un penalista vecchio stampo anche con un certo nome e proiettato sulla piazza romana, coloro che trovavano nella sua morte ragione di crescita e di affermazione sono di fatto avvocati i quali operavano esclusivamente sul territorio di Cosenza e che si segnalarono nel 1991 per avere inscenato il primo lungo sciopero della categoria solo per sbarazzarsi di un collegio di magistrati che voleva condannare alcuni pregiudicati evidentemente graditi alla loro categoria…”.
Nonostante la gravità della situazione che descrive Lupacchini, di questo omicidio eccellente si è sempre parlato quasi a bassa voce o come se l’episodio potesse dare fastidio ai manovratori. Anche al processo Garden il pm Stefano Tocci era a dir poco perplesso rispetto al movente addotto da Franco Pino che avrebbe armato la mano dei killer. Ma così andavano e purtroppo vanno ancora le cose a Cosenza.
Lo scenario dell’omicidio è la centralissima via Alimena, a un tiro di schioppo da via Arabia e ad appena qualcuno di più da piazza Fera, al terzo piano di un bel palazzo dove l’avvocato Sesti abita e ha lo studio.
La moglie Gelsomina Perri ha ricordato nel corso del processo che, nel corso della serata, intorno alle 21, tre giovani a volto scoperto e dall’accento napoletano (così ricorda il figlio Francesco Saverio) suonano al citofono dell’avvocato spiegando di essere suoi clienti.
Sesti apre prima il portone e poi la porta del suo studio, che ha un’entrata indipendente da quella della sua abitazione. Evidentemente riconosce i killer che gli tendono l’agguato. Immediatamente dopo, l’omicidio. I tre impugnano le loro pistole munite di silenziatore e sparano.
La moglie aveva sentito una scampanellata alla porta centrale e si era chiesta come mai Sesti non avesse ancora aperto lo studio. Il tempo di andare verso la porta ed ecco materializzarsi la triste realtà. Silvio Sesti era seduto sulla poltrona, dietro lo scrittoio, aveva la testa insanguinata. Non c’era più niente da fare.
Francesco Saverio Sesti riferirà anche di aver visto due persone allontanarsi dopo l’omicidio.
Non serve molto per capire l’origine di un crimine così efferato, eppure si preferisce scaricare tutto su Franco Pino mentre i familiari di Sesti cercano senza successo di indicare la strada giusta. Il figlio riferisce più volte del lavorio di discredito nei suoi confronti portato avanti da alcuni suoi colleghi. Con il contributo di diversi elementi delle cosche. E anche della Procura, che in fondo non ha mai amato personaggi integri moralmente come Sesti.
A uccidere Silvio Sesti, secondo la fantasiosa ricostruzione fornita da Franco Pino per discolparsi, furono due killer napoletani che trascorrevano periodi di latitanza nel cosentino e sulla costa tirrenica e che non disdegnavano di partecipare anche ad assalti a furgoni postali e banche. Alfonso Pinelli di 32 anni e Sergio Bianchi di 27 anni, entrambi napoletani.
Alfonso Pinelli è stato assolto e nei primi anni ’80 non è mai stato in Calabria.
Sergio Bianchi era uno dei più pericolosi killer al servizio di Don Raffaele Cutolo. Esecutore implacabile, era soprannominato “U Pazzu” per la sua determinazione. Autore di oltre cento omicidi trovò la morte a Napoli in un conflitto a fuoco che ingaggiò con le forze dell’ordine. Lo stesso Franco Pino da pentito ammise di averne paura considerandolo sempre pronto ad uccidere chiunque in qualsiasi momento. Ed era perfetto per il caso Sesti: spietato e soprattutto già defunto. Insomma: tombola!
E gli avvocati? Chi, fra di loro, poteva avere interessi a prendere il posto di Sesti?
A metà degli anni Settanta, per come scrive Arcangelo Badolati nel suo “Mamma ‘Ndrangheta” operavano “…il grande Luigi Gullo, Silvio Sesti, Orlando Mazzotta, Ernesto d’Ippolito, Carlo Vaccaro. Cominciano brillanti carriere pure Sergio Calabrese, Ninì Feraco, Riccardo Adamo, Giuseppe Mazzotta, Enzo Aprile, Tommaso Sorrentino, Massimo Picciotto e Franco Sammarco… “.
In molti purtroppo non ci sono più. Eppure, non doveva essere difficile per un magistrato perbene approfondire le cause legate al decesso di un personaggio così importante. Quanto ai colleghi, è evidente che nessuno ha avuto il coraggio di parlare. E così a tutti possono rimanere soltanto sospetti.
E l’omicidio di Silvio Sesti è la testimonianza vivente di cosa abbia significato (e significhi ancora) la stagione del pentitismo a Cosenza.