Franco Piperno e la lotta armata

Non c’è libro che racconti la nascita dei movimenti in Italia, a partire dal ’68 fino ai cosiddetti anni di piombo, in cui Franco Piperno non venga citato. Una sterminata letteratura scritta dai protagonisti di quegli anni, storici, sociologi e osservatori politici di ogni ordine e grado, descrive Franco Piperno come uno dei maggiori interpreti del significato politico della lotta di classe. Movimentista per passione e ideali, Piperno fu uno dei leader di Potere Operaio, un’organizzazione extraparlamentare della sinistra radicale, attiva tra il 1969 e il 1973, ed è stato spesso associato, in certa letteratura, al contesto politico che portò alla nascita delle Brigate Rosse. In realtà, la sua azione politica non si allineò mai alla lotta armata. Pur condividendo con altri movimenti dell’epoca la critica al capitalismo e allo Stato borghese, Potere Operaio sosteneva, a differenza di chi predicava l’avanguardia e il partito armato, l’importanza dell’autorganizzazione e dell’azione politica dal basso. E il rapporto di Piperno con la lotta armata può essere raccontato con un avvenimento che ha segnato per sempre la storia d’Italia e della sinistra rivoluzionaria: il caso Moro.

Un racconto che passa attraverso il rapporto tra Valerio Morucci, Adriana Faranda e Franco Piperno. Un legame, raccontato da tanti, che ci restituisce il clima politico di quegli anni tra “movimenti” e lotta armata. Una distinzione che vale la pena ricordare, non fosse altro che per evidenziare il ruolo apicale e la posizione politica all’interno dei movimenti di quegli anni di Franco Piperno. Le vicende umane e politiche che legarono Franco Piperno, Adriana Faranda e Valerio Morucci sono rappresentative delle profonde fratture che segnarono il panorama della sinistra rivoluzionaria italiana. Da un lato, “l’autonomia operaia” di Piperno, con la sua visione inclusiva e decentrata della lotta sociale; dall’altro, l’approccio rigido e centralizzato delle Brigate Rosse. Questo confronto, fatto di scontri e dure scelte, determinò non solo la disgregazione dei movimenti antagonisti, ma anche le traiettorie personali dei suoi protagonisti, intrappolati in un contesto storico di guerra civile e repressione. E il “caso Moro” fu per tutti lo spartiacque.

Adriana Faranda e Valerio Morucci, entrambi provenienti dalle fila di “Potere Operaio”, aderirono alle Brigate Rosse attorno alla metà degli anni ’70. Una scelta di radicalità politica, alimentata dalla convinzione che la lotta armata fosse una via per abbattere il capitalismo e lo Stato borghese. Una convinzione che però iniziò a vacillare durante i 55 giorni del sequestro Moro. Dopo l’azione di via Fani, definita da Piperno come l’espressione di una “geometrica potenza” politica e militare delle Brigate Rosse, si aprirono i 55 giorni che segneranno per sempre il destino della sinistra rivoluzionaria. Morucci e Faranda, che ebbero un ruolo attivo nel sequestro Moro, una con compiti logistici e l’altro con compiti operativi, tentarono di opporsi alla decisione di uccidere Moro, proponendo invece una strategia di dialogo politico.

Una posizione condivisa dai movimenti, che li pose però in netto contrasto con i vertici politici delle Brigate Rosse, guidate allora da Mario Moretti, che decisero infine di eseguire la condanna a morte dello statista il 9 maggio 1978. Per questo decisero di lasciare le Brigate Rosse. La loro fuga fu vissuta come una diserzione dai vertici dell’organizzazione, che non solo li accusarono di sottrazione di armi e fondi, ma avviarono una vera e propria caccia nei loro confronti. Abbandonati al loro destino e in fuga da più fronti, i due ex brigatisti si rivolsero a un vecchio compagno di strada: Franco Piperno, contattato attraverso Lanfranco Pace, che decise di aiutare i due fuggiaschi, non tanto per i ricordi della vecchia militanza comune, ma perché vedeva, attraverso l’azione dei due, la possibilità di creare un’organizzazione in contrapposizione alle Brigate Rosse che potesse rappresentare le idee dell’autonomia.

A unirli, quindi, non era solo il passato comune in Potere Operaio, ma una visione critica nei confronti delle strategie delle Brigate Rosse. Piperno, infatti, aveva già espresso il suo dissenso verso l’assassinio di Aldo Moro, definendolo un errore politico gravissimo. Durante i 55 giorni si era speso politicamente per trovare una mediazione. Fu l’onorevole Claudio Signorile a raccontare che durante l’ultima fase del sequestro dell’onorevole Moro, il Psi aveva sviluppato una linea politica tendente a ottenere la salvezza del sequestrato attraverso un atto autonomo dello stato, che consentisse uno scambio con la persona dell’onorevole Moro.

E nello sforzo “di capire se una linea del genere poteva essere considerata come suscettibile di sviluppi positivi”, diceva l’onorevole Signorile, si era cercato, nel contesto “di altri tentativi”, un interlocutore “per una eventuale reazione positiva da parte delle Brigate Rosse”, individuato in Franco Piperno. “Gli incontri – precisava Signorile – da lui avuti con il Piperno ben potevano essere stati tre, anziché due. Comunque egli ricordava bene che l’ultimo abboccamento verificatosi nel periodo compreso tra il 24 aprile e il 5 maggio 1978 e, comunque, prima del comunicato n° 9 era stato sollecitato telefonicamente da Piperno che, con aria preoccupata, aveva insistito sulle necessità di un urgente atto visibile da parte della Dc per salvare la vita dell’onorevole Moro o almeno per ritardare i programmi eventuali delle BR… per interrompere i termini (frase testualmente usata da Piperno)”.

Tutti tentativi, duramente osteggiati da Mario Moretti, che si conclusero con un nulla di fatto. Nei mesi successivi, l’area dell’autonomia criticò apertamente le BR per aver ristretto lo spazio politico delle lotte antagoniste con l’uccisione di Moro. Un’accusa condivisa anche da Morucci e Faranda, che sostenevano che il partito armato dovesse essere subordinato alle istanze dei movimenti sociali e non viceversa. Una presa di posizione che costò loro l’accusa, all’interno delle Brigate Rosse, di rappresentare nella “colonna” un’infiltrazione ideologica dell’autonomia.

La fuga di Morucci e Faranda dalle BR e dallo Stato li portò a cercare rifugio in alloggi di fortuna. Lanfranco Pace, con l’aiuto della sua compagna Stefania Rossini, trovò una prima sistemazione temporanea per i due presso il giornalista Aurelio Candido, militante del Partito Radicale. Tuttavia, l’insicurezza e il timore di Candido portarono alla necessità di una nuova soluzione. Piperno si rivolse allora a Giuliana Conforto, docente universitaria e collega a Cosenza, presentando i due ex brigatisti come amici in difficoltà. La Conforto accettò di ospitarli, sebbene questa scelta si inserisse in un clima di crescenti tensioni politiche e personali. E arrivò il 7 aprile 1979, che segnò l’ennesima svolta drammatica. L’inchiesta del giudice Guido Calogero portò all’arresto di molti esponenti dell’autonomia operaia, tra cui Toni Negri, Emilio Vesce e altri leader di spicco. Piperno e Pace riuscirono a rifugiarsi in Francia, mentre Morucci e Faranda videro svanire ogni possibilità di costruire una nuova formazione combattente. Senza più appoggi concreti, braccati dallo Stato e osteggiati dalle Brigate Rosse, compresero che la loro latitanza era giunta al termine.

Il 29 maggio 1979, Faranda e Morucci furono arrestati. Dopo l’arresto, entrambi decisero di collaborare con la giustizia, prendendo le distanze dalle BR e fornendo informazioni utili alle indagini.

La storia di Franco Piperno, Adriana Faranda e Valerio Morucci riflette le forti tensioni di quegli anni tra autonomia e lotta armata, culminate nel caso Moro, che segnarono il destino dei movimenti e dei loro protagonisti, costretti a confrontarsi con il fallimento di una stagione politica e umana. Una lezione da cui, forse, nessuno ha davvero tratto insegnamento. Questa vicenda non solo mette in luce, con i dovuti distinguo, le divisioni ideologiche e strategiche che frammentarono la sinistra rivoluzionaria italiana, un vizio che ancora oggi affligge la sinistra, ma ci ricorda anche che per impartire lezioni di rivoluzione non basta essere professori, e Franco lo era, ma occorre possedere il coraggio delle proprie scelte, soprattutto nei momenti cruciali, quando il risultato è incerto. E, nel bene e nel male, quel coraggio Franco Piperno lo ha incarnato… fino al suo ultimo respiro.