(di Bruno Coletta – nuovocorrierenazionale.com)
In cinque anni l’Italia ha perso oltre 156mila laureati e diplomati, che si sono trasferiti all’estero. Lo rende noto l’Istat.
Solo considerando il costo sostenuto dallo Stato per la loro istruzione (in media, tra diplomati e laureati, intorno ai 100mila euro complessivi a studente per l’intero ciclo scolastico), si tratta di una perdita secca di circa 16 miliardi, oltre 3 all’anno.
Ma questa è solo la perdita relativa al costo sostenuto nel Paese e che va a produrre i suoi risultati in altri Paesi. Ma in realtà c’è un altro costo, ben più grave e pesante. Quello del mancato contributo di questi giovani all’economia e alla società italiana, quindi il mancato contributo allo sviluppo del Paese di forze giovani e che, per circa la metà di coloro che sono fuoriusciti per cercare migliori condizioni di vita e di lavoro, creano un ’buco’ che non si può colmare. Perché la nostra immigrazione va numericamente a coprire questi vuoti, ma la qualità di chi arriva non è certo quella di chi parte.
Insomma, l’addio di questi giovani è una perdita secca, così come il bilancio complessivi arrivi/partenze.
Un flusso in uscita che è iniziato a crescere dal 2012, quando gli effetti della Grande recessione si sono fatti sentire e hanno raggiunto le pieghe più profonde della società italiana.
“Nel 2017 – afferma l’Istat commentando i dati dell’ultimo anno disponibile – più della metà dei cittadini italiani che si trasferiscono all’estero (52,6%) è in possesso di un titolo di studio medio-alto: si tratta di circa 33mila diplomati e 28 mila laureati. Rispetto all’anno precedente il numero di diplomati emigrati è sostanzialmente stabile, mentre quello dei laureati mostra un lieve aumento (+3,9%). Tuttavia – contnua l’Istituto nazionale di statistica – l’aumento è molto più consistente se si amplia lo spettro temporale: rispetto al 2013, gli emigrati diplomati aumentano del 32,9% e i laureati del 41,8%.
Guardando l’età, gli espatriati di 25 anni e più sono 82 mila e 31 mila quelli rimpatriati nella stessa fascia di età: il loro saldo migratorio con l’estero è negativo per oltre 51 mila unità, di cui 13 mila laureati (26,2%) e 19 mila diplomati (36,7%). I saldi migratori cumulati dal 2013 al 2017, calcolati per gli emigrati ultra 24enni, evidenziano una perdita netta di popolazione italiana di quella fascia di età di circa 244 mila unità, di cui il 64% possiede un titolo di studio medio-alto”.
In sintesi, un quadro pessimo.
L’Istat rileva che le motivazioni che spingono i giovani migranti a lasciare l’Italia sono da attribuire in parte all’andamento negativo del mercato del lavoro italiano e, in parte, alla nuova ottica di globalizzazione, che induce i giovani più qualificati a investire il proprio talento nei Paesi esteri in cui sono maggiori le opportunità di carriera e di retribuzione.
In altre parole, poiché si vota anche con i piedi, questi giovani ‘bocciano’ senza appello il loro Paese.
In 20 anni più di un milione di residenti dal Mezzogiorno al Centro-nord
Ma c’è anche il capitolo, robusto, delle migrazioni interregionali, con la ripresa, ormai ventennale, di una nuova ondata migratoria dal Mezzogiorno.
Nel 2017, Il numero di trasferimenti interregionali è pari a 322mila 867 (24,2% del totale dei trasferimenti), in leggero calo rispetto all’anno precedente (325 mila); il tasso di migrazione interregionale, invece, è rimasto invariato ed è pari al 5,3 per mille; le ultime previsioni demografiche nello scenario mediano prospettano una tendenza in lieve diminuzione e un tasso stimato al 5 per mille per il 2037.
Gli spostamenti interregionali di maggiore interesse riguardano la tradizionale direttrice che parte dal Mezzogiorno e si dirige al Centro-nord.
Nel 2017, sono circa 110mila i movimenti da Sud e Isole che hanno come destinazione le regioni del Centro e del Nord; di un certo rilievo sono anche i trasferimenti sulla rotta ‘inversa’ (56 mila), dal Centro-nord al Mezzogiorno: la perdita netta calcolata per la ripartizione meridionale è quindi di circa 54 mila residenti.
Il flusso in uscita dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord è cresciuto in maniera decisa alla fine degli anni Novanta, per poi diminuire negli anni successivi.
Questo andamento si è accentuato all’avviarsi della crisi economica che da un lato ha incentivato gli spostamenti dalle regioni meridionali, dall’altro ha provocato una riduzione delle opportunità di inserimento nel Centro-Nord, permettendo in questo modo di contenere la perdita di popolazione del Mezzogiorno. La corrente migratoria opposta, dall’Italia Centrosettentrionale a quella meridionale, è invece rimasta sostanzialmente stabile nel periodo considerato.
Le regioni del Centro-Nord registrano negli ultimi venti anni flussi netti sempre positivi provenienti dal Mezzogiorno: l’Emilia-Romagna ha accumulato fino al 2017 un guadagno netto di popolazione di oltre 311mila unità, la Lombardia di oltre 260mila, le altre regioni del Centro-nord, nel complesso, di circa 602mila.
Viceversa, i saldi netti sono sempre negativi tra 1997 e 2017 per le regioni del Sud e delle Isole; unica eccezione l’Abruzzo, che ha presentato saldi positivi fino al 2008, mentre dal 2009 al 2017 i saldi sono stati negativi, verosimilmente in conseguenza del terremoto che ha interessato la regione e ha fatto crescere le cancellazioni anagrafiche nelle zone colpite.
In particolare, nel periodo considerato, la Sicilia ha perso più di 261mila residenti in seguito alla mobilità interregionale, la Campania, da sola, 464 mila; le altre regioni del Mezzogiorno circa 449 mila.
Negli ultimi venti anni, complessivamente, la perdita netta di popolazione del Mezzogiorno, dovuta ai trasferimenti tra le due ripartizioni, è pari a 1 milione 174 mila.
Le regioni con i deflussi più intensi verso il Centro-nord sono state Campania e Sicilia.