Gattuso e la Calabria: “Penso, gioco, alleno e sogno in calabrese: sempre in allenamento col mio dialetto”

Gennaro “Rino” “Ringhio” Gattuso è l’uomo del giorno. Tutta l’Italia del calcio si affida a lui per risollevare le sorti della Nazionale e più in generale agli “azzurri per l’azzurro” come da slogan confezionato per uscire fuori dall’impasse. E Rino ha tanta voglia di cimentarsi in questa nuova avventura. Il nostro omaggio non può essere che quello di ripercorrere le tappe salienti di quello che è il legame indissolubile con la sua terra, con la Calabria e in particolare con Schiavonea, descritto in maniera bellissima nella sua biografia ufficiale: “Se uno nasce quadrato non muore tondo”.

IL FIGLIO DI MASTRO RINO (https://www.iacchite.blog/luomo-discende-da-gattuso-il-figlio-di-mastro-rino-da-schiavonea/)

GATTUSO E SCHIAVONEA (https://www.iacchite.blog/gattuso-e-schiavonea-la-spiaggia-la-prima-formazione-e-la-gara-a-dieci-gol-con-il-supertele/)

JONICA SPORT, LA PRIMA SQUADRA “UFFICIALE” E MASTRO TOTONNO (https://www.iacchite.blog/gattuso-e-schiavonea-la-storia-racconta-jonica-sport-la-prima-squadra-ufficiale-e-mastro-totonno/)

GATTUSO: PENSO, GIOCO, ALLENO E SOGNO IN CALABRESE 

Forse potrò sembrare banale, ma sono sincero: io mi sento ancora lo stesso che si alzava alle 5 di mattina per andare nei gozzi a pescare con il mio amico Fortunato, e che andava a raccogliere a mani nude, facendosi un male cane, i fichi d’india, i fich’e paletta come diciamo noi, e che all’inizio di aprile immancabilmente si faceva il bagno in mare di nascosto, con la mamma che poi mi leccava la pelle per sentire se sapeva di sale. E come si fa a scordarsi ‘ste cose? Terrone ero e terrone sono, e orgoglioso di esserlo.

Per me la parola terrone non si riferisce a un fattore geografico, è un luogo dell’anima. Per scherzare, spesso Pirlo mi chiama terrone, dice che noi terroni siamo stressanti. Quanto me l’ha menata quando mi hanno festeggiato a Corigliano dopo la vittoria dei Mondiali. “Roba da terroni” mi sfotteva. E poi anche lui ha fatto la stessa cosa a Flero, in provincia di Brescia. C’ero pure io ai festeggiamenti, e quando sono salito sul palco gliel’ho detto. “Andrea, alla fine sei un terrone come me!”. Già, perché per me esistono terroni del Sud e terroni del Nord. Essere terroni significa avere delle radici molto solide, vuol dire amare e portare avanti le tradizioni, non rinnegare mai la propria cultura e la propria identità, dare al proprio figlio maschio il nome del nonno, avere un rispetto sacro per la famiglia e per gli amici…

Io adoro fare le cose che si facevano tanti anni fa: per esempio, non mi perderei per nulla al mondo il cenone del 24 dicembre a Schiavonea. Una cena lunghissima, che dura ore e ore, ogni bicchiere è il pretesto per un brindisi, tutti che parlano, scherzano, ridono. In calabrese, ovviamente, quella che continua a essere la mia lingua madre. Lo parlo ogni volta che posso, quando telefono ai miei, con il mio amico Salvatore che mi segue come un angelo custode fin dai tempi di Perugia. Ci viene spontaneo, naturale, è un modo di comunicare più diretto, sanguigno, vero…

Se uno nasce parlando una certa lingua non se la scorda più, rimane appiccicata addosso come una seconda pelle. Io penso anche in calabrese, è più veloce, è più comodo. E’ la mia lingua naturale, i ragionamenti nel mio dialetto mi vengono spontanei, istintivi… Ora posso vantarmi di parlare tre lingue: italiano, inglese e calabrese. Ma le prime due sono lingue acquisite col tempo e con la pratica. Anche sul campo, quando bisogna prendere una decisione in una frazione di secondo, il mio cervello comincia a produrre idee in calabrese. E se mi capita di imprecare dopo una palla sbagliata o per un fallo di un avversario, o contro un arbitro, lo faccio in calabrese. Chissà quanti morti che t’è muort, morti e mammete o vai a fare in du culu ho tirato durante la mia carriera. Perché, diciamocelo chiaramente, in campo ne volano di tutti i colori…

Io gioco ancora in calabrese (ovviamente allena anche in calabrese, e ci mancherebbe pure…, ndr), proprio come facevo vent’anni fa. Giocare in calabrese significa sudarti la pagnotta, combattere, non tirarti mai indietro, non mollare mai, metterci sempre la stessa rabbia su ogni pallone, anche quelli che sembrano persi o impossibili. E’ vero che a Perugia, Glasgow, Salerno e Milano ho imparato molto. Ma il mio spirito guerriero deriva dalla mia terra d’origine. Guardate i calciatori calabresi che militano in Serie A: Iuliano, Fiore, Pippo Pancaro, Perrotta, Iaquinta e io (manca Berardi, che avrebbe esordito qualche anno dopo l’uscita del libro, ndr). Sono tutti combattenti, gente che non si scorda da dove arriva, e che è orgogliosa delle proprie radici. L’appartenenza allo stesso ceppo si è fatta sentire nelle occasioni in cui ci siamo trovati in Nazionale insieme: tra noi calabresi si parla sempre in dialetto, è la nostra lingua, è una cosa spontanea.

Anche quando sogno lo faccio in calabrese. Sì, pure il mio inconscio parla in dialetto, anche se non sono un grande sognatore ma quando dormo mi dicono che faccio dei versi incredibili. Sono sempre in allenamento con il dialetto…

4 – (continua)